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— L’aereo era in ritardo — rispose.

— Perché non è trapelato niente del “caso Franklin”? — chiesi ancora.

— Sono stato da Bruce — disse Dow. — Mi ha mostrato il contratto in gran riservatezza, pregandomi di non rivelarne l’esistenza, per via di una clausola che annullava automaticamente l’atto, in caso di annuncio prematuro.

— E Hennessey?

— La proprietaria dell’immobile era la First National Bank. Probabilmente avranno inserito la stessa clausola nel contratto. Hennessey potrebbe stare lì ancora un anno, ma dopo?

— L’offerta sarà stata vantaggiosa. O almeno, così alta da indurii ad accettare.

— Nel caso dei Franklin, sì. Te ne parlo con la massima segretezza, e ti prego di non farne parola. Il prezzo era il doppio di quello che avrebbe pagato una persona sensata. Ma è curioso che il proprietario chiuda, dopo avere sborsato una cifra del genere. È questo che fa soffrire Bruce. Come se qualcuno lo odiasse così tanto da pagare il doppio del prezzo per comprare l’azienda solo allo scopo di farla morire. Parker, tutto questo non ha senso.

Mi soffermai a riflettere su alcuni punti. Questo spiegava tutta la segretezza. Perché non fossero trapelate indiscrezioni. E perché il vecchio George non mi avesse accennato alla vendita della casa, squagliandosela invece in California per non rispondere alle domande dei suoi amici e inquilini. Forse in ogni contratto erano state stabilite tutte quelle condizioni restrittive, con date di scadenza che probabilmente coincidevano. Era tutto incredibile.

— Parker — chiese Dow — ci sei ancora?

— Sì — risposi. — Dimmi ancora una cosa, Dow. Chi ha comprato i Magazzini Franklin?

— Non lo so — disse. — Un’associata che si occupa di amministrazione di immobili, la Ross, Martin, Park Gobel ha redatto gli atti. Ho telefonato…

— E hanno risposto che agivano per conto di un loro cliente, e che non potevano dirti altro.

— Esatto. Come fai a saperlo?

— Intuito — dissi. — Tutta questa faccenda puzza.

— Ho preso informazioni sulla Ross eccetera. Ha aperto solo dieci settimane fa.

Aggiunsi un dettaglio frivolo: — Anche Eddy è stato sfrattato. Diventerà un deserto, quel quartiere.

— Eddy?

— Sì, quello del bar.

— Parker, ma che sta succedendo?

— Che mi possano impiccare se lo so — dissi. — Che altro c’è di nuovo?

— Le banche. Sono piene di contanti. Per tutta la settimana non hanno fatto altro che accettare depositi e ordini di investimenti.

— Bene — dissi. — Fa piacere notare che almeno la situazione economica è buona…

— Parker — scattò — che ti passa per la testa?

— Niente. Ci vediamo domattina — dissi, e riattaccai prima che mi facesse altre domande.

Perché non gli avevo detto quel che sapevo? Non c’era motivo per tacere. Anzi, c’era una grossa probabilità che fosse mio dovere informarlo.

Tuttavia non avevo detto niente, non ce l’avevo fatta, non ero riuscito a sputarlo fuori. Come se, tacendo la cosa, le potessi impedire di essere vera. E ciò era assai stupido.

Di nuovo in strada, tirai fuori la lettera della Ross, Martin, Park Gobel. La ditta aveva il recapito nel vecchio McCandless Building, una specie di mausoleo in mattoni, destinato a scomparire presto, secondo il nuovo piano regolatore.

Già immaginavo il posto. Ascensori cigolanti, scalinate di marmo con pesanti ringhiere di bronzo annerite dal tempo, solenni corridoi con pannelli di quercia sbiaditi e alti soffitti, grandi porte a vetri. Al pianterreno, il porticato con il tabaccaio, il giornalaio, il lustrascarpe e altre attività minori.

Erano passate le cinque. Le strade brulicavano di macchine: impiegati che tornavano a casa, diretti a ovest per imboccare la statale che li portava alla zona residenziale tra i laghi e le colline.

Era l’“ora blu”, quando la luce del sole comincia ad abbassarsi e non è ancora giunto il tramonto. L’ora più bella della giornata, per tutti quelli che non hanno preoccupazioni.

Mentre camminavo lentamente, rimuginavo alcune idee. Tornavo ostinatamente su quella che ritenevo essere un’idea fissa che non mi piaceva, ma sapevo per esperienza che non dovevo sottovalutare le mie fissazioni.

Entrai in un negozio di ferramenta e acquistai un aggeggio per tagliare il vetro. Quasi vergognandomene, lo ficcai in tasca e fui di nuovo in strada.

Adesso c’era più gente sul marciapiede, e in strada più automobili che assordavano con i loro clacson. Mi appoggiai a un edificio, osservando il flusso umano.

Per un attimo pensai che era ora di smetterla con le fantasie, di tornare a casa a cambiarmi per andare a prendere Joy.

Stavo lì, indeciso, quando al semaforo davanti a me si fermò un taxi, imbottigliato nel traffico. Era vuoto. Presi una decisione istantanea, senza quasi il tempo di formularla. Scesi dal marciapiede, il taxista mi vide e aprì lo sportello.

— Dove, signore?

Gli diedi l’indirizzo del McCandless Building.

— Ha notato che il mondo sta andando in malora? — chiese il tassista, tanto per cominciare la conversazione.

10

Il McCandless Building era proprio come me l’ero immaginato. Era fatto come tutti i vecchi palazzi di uffici.

Il corridoio del terzo piano era silenzioso, con la luce del tramonto che filtrava dalle finestre. La moquette era consumata, le pareti consumate; le modanature, con il loro vecchio lucore, avevano un’aria stanca e sbattuta.

Le porte degli uffici avevano vetri smerigliati con i nomi delle ditte scritti in lettere dorate. Ogni porta, come notai, era chiusa con una serratura diversa da quelle che erano state in origine.

Attraversai l’atrio in tutta la sua lunghezza, sicuro di non trovare nessuno. Tutti gli uffici erano apparentemente deserti. Era venerdì sera, gli impiegati dovevano essersene andati via in fretta pensando al fine settimana. C’era ancora tempo, invece, per l’arrivo delle signore delle pulizie.

L’ufficio della Ross, Martin, Park Gobel era verso la fine del corridoio. Tentai di aprire la porta abbassando la maniglia, ma come previsto era chiusa. Tirai fuori di tasca il tagliavetro e mi misi al lavoro. Ma non fu facile. Normalmente il tagliavetro viene usato su una lastra disposta orizzontalmente. Il mio pezzo era invece diritto, infisso nel telaio di una porta.

In qualche modo, dopo un certo tempo, riuscii praticare un’incisione. Rimisi in tasca l’attrezzo e rimasi immobile per un istante a sentire se arrivava qualcuno. Poi diedi un colpo deciso al vetro, con il gomito, sulla parte intaccata. Il pezzo di vetro si incrinò e si ruppe, inclinandosi verso l’interno ma rimanendo attaccato al telaio. Diedi un’altra gomitata, si ruppe del tutto e cadde a terra. Ora c’era un buco delle dimensioni di un pugno proprio sopra la serratura.

Facendo attenzione a non ferirmi con i frammenti ancora attaccati alla cornice della porta, passai il braccio attraverso il buco e girai il pomello. Quindi con l’altra mano abbassai la maniglia e spinsi, aprendo la porta.

Entrai cauto, richiudendomi la porta alle spalle. Scivolai lungo il muro e rimasi a lungo lì incollato. I capelli mi si erano rizzati sulla nuca, e il cuore batteva forte: perché nell’aria c’era quel profumo da dopobarba di Bennett. Una traccia molto lieve, ma inconfondibile, come se l’uomo se ne fosse dato alcune gocce al mattino e mi fosse passato accanto al pomeriggio. Non riuscivo a definire il tipo di sensazione olfattiva, non trovando alcun termine di paragone, ma era un tipo di odore che non avevo mai sentito prima in vita mia. Non era così terribilmente sgradevole, era inquietante perché era assolutamente ignoto.