— Va a caccia di procioni? — chiesi. Non me ne importava granché, ma era chiaro che il taxista voleva fare conversazione.
Infatti non aspettava altro.
— Fin da ragazzo! — esclamò. — Ho cominciato con mio padre, quando avevo nove o dieci anni, poi è una cosa che ti resta nel sangue. Arriva una notte come questa, e non resisti più. C’è che in questo periodo dell’anno il bosco ha tutto un suo profumo, e il vento che passa tra le foglie, che stanno per staccarsi, fa come una musica. E tu senti che l’inverno è dietro l’angolo.
— Dove andate a caccia?
— A ovest, a un centinaio di chilometri di qui, lungo il fiume. In quella zona c’è un sacco d’alberi.
— E prendete molti procioni?
— Ah, ma non è mica quello l’importante — rispose. — Molte notti si esce, e si torna a mani vuote. I procioni sono una scusa per girare nei boschi di notte. Non è che c’è mai molta gente in giro per i boschi, sia di notte sia di giorno. Non sono mica il tipo che va a fare discorsi sulla comunione con la natura, ma le posso dire, amico, che, se uno passa un po’ di tempo con lei, poi si sentirà migliore.
Ero sprofondato nel sedile e guardavo sfilare i fabbricati. Quella era ancora la vecchia città che conoscevo bene, ma c’era qualcosa di stregato nell’aria. Come se ombre furtive ci spiassero dagli angoli oscuri degli edifici.
L’autista mi chiese: — E lei, mai stato a caccia di procioni?
— No — risposi. — Qualche volta vado a caccia di anitre, oppure di fagiani nel Sud Dakota.
— Anche a me piacciono le anitre e i fagiani — disse l’autista. — Ma i procioni hanno qualcosa di speciale.
Tacque un momento, poi riprese: — Comunque, ognuno ha i suoi gusti. Conosco un vecchio pazzo che ha la mania delle puzzole. Ci parla, quello, con le puzzole. Le coccola, e loro gli si avvicinano, gli salgono addosso e si fanno accarezzare come gattini. Lo seguono perfino in casa, come cuccioli. Incredibile, le dico. Fa quasi senso vedere come se la intende con quelle bestie. Vive in una capanna sulle colline, in un posto pieno di puzzole. Sta scrivendo un libro su di loro. Me l’ha anche fatto vedere. È scritto a matita su un quaderno come quelli che usano i ragazzini a scuola. Si siede a un tavolino e scrìve, con un mozzicone di matita, che di tanto in tanto inumidisce con le labbra, alla luce di una vecchia lanterna sporca. Ma le dirò, mister, che non sa mica scrivere bene, fa tremendi errori di ortografia. Un vero peccato, perché ci tiene al suo libro.
— Così va la vita — gli dissi.
Continuò a guidare in silenzio per un po’.
— Al prossimo isolato, ah? — mi chiese.
Gli dissi di sì. Si fermò davanti all’ingresso, scesi.
— Cosa ne pensa — disse — di venire a caccia con me, una di queste sere? Si partirebbe verso le sei.
— Sarebbe carino — risposi.
— Mi chiamo Larry Higgins, può trovare il mio numero sull’elenco. Sempre a disposizione.
Gli promisi che avrei telefonato.
14
Il semicerchio tagliato, nella moquette davanti alla mia porta, era stato rimpiazzato. Non l’avevo quasi notato, a causa della luce fioca della lampada, ancora più debole del solito. C’ero quasi passato sopra senza accorgermi che era stato riparato. Non avevo più pensato alla moquette, preso com’ero da ben altri pensieri.
Mi fermai, teso come chi si prepara ad affrontare un pericolo ignoto. Il buffo era che la parte sostituita non era nuova. Era la stessa vecchia, consunta moquette di sempre. Mi chiesi come avesse fatto l’amministratore a ritrovare il pezzo che era stato tagliato.
Mi inginocchiai per esaminare da vicino, e m’accorsi che non c’era più traccia del taglio. Né tracce di cucitura. Niente punti. Passai la mano sull’area che era stata asportata, ma era proprio moquette, non carta con sotto nascosta una trappola. Sentivo la consistenza e lo spessore del materiale, tutta roba autentica.
Eppure mi inquietava. Quella cosa mi aveva quasi fregato una volta, e stava per farlo di nuovo. Non ero disposto a lasciarglielo fare. Rimasi lì inginocchiato per un po’, avvolto dal ronzio della lampadina.
Infine mi rialzai lentamente, presi la chiave e mi piegai in avanti verso la porta, per aprirla senza mettere i piedi sull’area davanti all’uscio. Chi mi avesse visto piegato in quello strano modo, avrebbe pensato che ero matto.
Aperta la porta con uno scatto, saltai il pezzo di moquette sostituita ed entrai. Chiusi la porta alle mie spalle, accesi la luce.
Era lì, la mia camera, la mia casa, il luogo in cui trovavo sicurezza e riposo. Ma che purtroppo, mi tornò in mente, sarebbe stato mio per soli novanta giorni ancora.
Ma perché? Che sarebbe successo, alla scadenza, non solo a me ma a tutti gli altri inquilini sfrattati? E alla città?
“Trattiamo qualunque affare” c’era scritto sul biglietto di visita. Come i rigattieri, che commerciano bottiglie, ossa, stracci, tutto quello che si può vendere. Ma il rigattiere è un commerciante onesto: compra per guadagnare. Quella gente, invece, perché comprava? Perché Fletcher Atwood comprava? Certamente non per guadagnare, se pagava un’azienda più di quanto valesse per poi non farne niente.
Mi sfilai il cappotto e lo buttai su una sedia, lanciandovi sopra il cappello. Consultai l’elenco del telefono che era sul tavolo, cercando il numero di Atwood. Ce n’erano un’infinità. Ma nessuno si chiamava Fletcher.
Così decisi di chiedere al servizio informazioni.
In tono piatto, l’impiegata rispose: — Mi spiace, questo abbonato non risulta dai nostri elenchi.
Riattaccai, chiedendomi che fare.
Mi trovavo in una situazione d’emergenza, che richiedeva un’azione immediata. Ma quale? Cosa si può fare per evitare che un’intera città venga comprata? E innanzi tutto, se l’avessi detto a qualcuno, mi avrebbe creduto?
Scorsi mentalmente una lista di nomi. Certo, il Vecchio sarebbe stata la prima persona cui confidare tutto quello che sapevo, se non altro per dovere professionale. Ma temevo fortemente che, al primo accenno di quelle incredibili novità, mi avrebbe licenziato sui due piedi considerandomi un asino incompetente.
Pensai al sindaco, al capo della polizia, al procuratore distrettuale. Anche con loro, dopo tre parole correvo il rischio di finire catalogato come l’ennesimo balordo, sempre se non mi sbattevano direttamente in cella.
Forse, il senatore Roger Hill mi avrebbe ascoltato. Stavo per sollevare il ricevitore, ma ritirai la mano.
Che cosa avrei raccontato a Washington?
Immaginai di dirgli: “Ascoltami, Rog. Qualcuno sta tentando di comprare tutta la città. Mi sono introdotto furtivamente in un ufficio e ho trovato gli atti legali; c’erano poi diversi abiti appesi e una scatola da scarpe piena di pupazzi, e un grosso buco nel muro…”
Troppo ridicolo, troppo fantastico per sperare di essere preso sul serio. Se qualcuno fosse venuto a raccontare a me quella storia, l’avrei preso per matto.
Prima di parlare dovevo procurarmi prove solidissime. Roba da inchiodare gli accusati. Dovevo essere in grado di dimostrare chi, come, perché, e alla svelta. Cominciando da Fletcher Atwood. Dovunque si trovasse in quel momento, era lui la prima persona da scovare. Sul suo conto avevo due elementi solidi: non aveva un telefono, e alcuni anni prima aveva comprato il Belmont Place, a Timber Lane. Esisteva qualche dubbio che avesse mai effettivamente abitato là, ma era pur sempre un inizio. Anche se Atwood fosse risultato assente, nella casa avrei potuto trovare qualcosa che mi mettesse sulle sue tracce.
Mancava un quarto alle sette, dovevo andare a prendere Joy. Mi sarei limitato a cambiare camicia e cravatta. Dopotutto, uscivamo soltanto per cenare.