Raggiunsi l’atrio, uscii. Era una notte tranquilla e piacevole, nell’aria si sentiva odore di foglie bruciate.
Arrivò anche un rapido, buffo rumore ritmico, e da dietro l’angolo del palazzo, dalla parte verso il parcheggio, sbucò un cane che scodinzolava allegramente. Era grosso la metà di un cavallo, dal pelo così arruffato da nascondere i suoi lineamenti. Sembrava venuto fuori direttamente dalla luce di quel tramonto autunnale.
— Qui, bello! — lo chiamai. Si avvicinò e si accucciò sul marciapiede, battendo il terreno con la coda. Stavo per accarezzarlo sulla testa, quando sentii il rumore di una macchina che si avvicinava in velocità. Inchiodò davanti a noi.
Si aprì uno sportello.
— Salta dentro — disse Joy. — Via di qui!
15
Invece di andare a vedere il nuovo locale che era appena stato aperto, a Pinecrest Drive, cenammo in uno di quei ristoranti tipici, di quelli che piacciono tanto a Joy. Per l’esattezza, Joy cenò. Io no.
Le donne sono incredibili. Le raccontai tutto. Dopo l’accenno fatto al telefono, non potevo più tacere il resto. In effetti non c’era ragione per tenerla all’oscuro, e tuttavia mi sentivo così stupido. Lei continuò a mangiare con calma, come se le stessi raccontando l’ultimo pettegolezzo d’ufficio. Sembrava quasi che non mi credesse, benché fossi certo del contrario.
Aveva l’atteggiamento di chi non crede a una parola di ciò che sente, eppure ero certo che ci credesse. Forse, vedendo che ero sconvolto (poteva essere altrimenti?), stava compiendo il suo dovere rassicurante di donna.
— Continua pure, ma… ti prego, mangia — mi disse. — Non importa quel che accade. Ora devi mangiare.
Guardai nel piatto e sorrisi, perché alla fioca luce delle candele non riuscivo a distinguere cosa contenesse il mio piatto.
— Joy, perché avevo paura di andare nel parcheggio? — le chiesi.
Questa era la cosa che più mi innervosiva.
— Perché sei un vigliacco — rispose. Il che non mi aiutò.
Assaggiai un boccone. Aveva il classico gusto delle cose che non riesci a vedere.
L’orchestrina attaccò un motivo, del genere che ti aspetti di sentire in locali come quello.
Mi guardai intorno e pensai ancora a quei rumori che avevo sentito dietro la porta dell’armadio. Ma lì, in quell’atmosfera, ciò che era successo mi sembrava una sorta di incubo.
Eppure non riuscivo a darmi pace. Ero certo di averli uditi, quei rumori. Al di fuori di questo mondo ovattato in cui mi trovavo, stava acquattata una cruda realtà che nessuno aveva ancora affrontato. Solo io ne avevo avuto un rapido assaggio.
— Cosa intendi fare? — mi chiese Joy, quasi leggendomi nel pensiero.
— Non ne ho idea — dissi.
— Sei un giornalista — osservò. — E la fuori c’è una storia che ti aspetta. Però, per favore, stai attento.
— Lo farò senz’altro.
— Cosa pensi che ci sia sotto? — mi chiese.
Scossi la testa. — Tu non mi credi, eh? — dissi. — E attualmente non vedo chi altri potrebbe crederci.
— Credo all’interpretazione che dai dei fatti, Parker. Ma sei sicuro che sia quella giusta?
— È l’unica che ho.
— La prima sera eri ubriaco. L’hai detto tu. E la trappola…
— E la moquette tagliata? L’ho vista bene a sbornia passata. E poi, l’ufficio…
— Cominciamo da capo — disse — e procediamo con ordine. Non devi arrenderti. Non farti abbattere come un birillo da una palla da bowling…
— Ma sicuro! — gridai. Non ci avevo più pensato.
— Non urlare, la gente ci osserva.
— Le palle da bowling — le dissi. — Me n’ero dimenticato. Rotolavano giù per la strada…
— Parker!
— Sì, a Timber Lane. Joe Newman mi ha chiamato per dirmelo.
Notai che Joy era spaventata. Aveva preso per vero tutto quello che le avevo detto fino a quel momento, ma le palle da bowling le avevano dato il colpo finale. Era probabile che pensasse che fossi veramente uscito di testa.
— Mi spiace — le dissi, cercando di essere il più gentile possibile.
— Palle da bowling che rotolano per strada! Parker!
— Una dopo l’altra, come in processione — aggiunsi.
— Chi le ha viste? Joe Newman?
— No, non Joe. Alcuni studenti. Joe l’ha saputo, e mi ha telefonato. E a suo tempo gli ho risposto di lasciar perdere.
— Dov’è successo? A Belmont Place?
— Proprio là — dissi. — Vedi? Tutto si collega. Non so ancora come, ma c’è un legame tra tutti questi fenomeni.
Allontanai il piatto e spinsi indietro la sedia per alzarmi.
— Dove stai andando, Parker?
— Primo, ti accompagno a casa. Poi, se mi presti la macchina…
— D’accordo, ma… Capisco, Belmont Place.
16
Casa Belmont era una grossa macchia nera e rettangolare, affondata in mezzo alle macchie nere degli alberi. Sorgeva su un piccolo promontorio che si spingeva nel lago. Quando fermai la macchina, potei sentire la risacca sulla spiaggia. Attraverso gli alberi scorgevo il luccichio della luna sull’acqua e in alto, da un abbaino, un vetro rifletteva la luce, ma sia la casa sia gli alberi che le facevano da sentinella erano avvolti nell’oscurità. Il fruscio delle foglie smosse nel silenzio della notte sembrava il rumore furtivo di tante zampette.
Scesi dalla macchina e chiusi dolcemente lo sportello, per evitare di far rumore. Mi fermai a osservare la casa. Adesso non ero spaventato, il terrore e l’orrore del pomeriggio si stavano disperdendo, ma non mi sentivo molto coraggioso lo stesso.
Forse anche lì erano state disposte alcune trappole. Magari diverse da quella pronta davanti alla mia porta, ma molto più efficienti.
Subito dopo mi sembrò un’idea stupida. Secondo la logica più elementare, sistemando trappole in quel luogo, si correva il rischio di catturare persone che passavano per andare al lago, o bambini che giocavano, ottenendo così di attirare l’attenzione proprio là dove non si voleva attirarla. Se trappole c’erano, si trovavano all’interno della casa. A ripensarci, anche questo era improbabile. Là dentro infatti loro, chiunque fossero, erano sul loro terreno, e per sistemare gli intrusi non avevano bisogno di trappole.
Probabilmente, andando avanti con il ragionamento, i miei sospetti sarebbero diventati pura fantasia, e casa Belmont non avrebbe avuto niente a che fare con tutte quelle storie. Tuttavia, sentivo la necessità di accertarmene. Dovevo sapere. Dovevo andare fino in fondo e levarmi il dubbio, o avrei continuato per tutta la vita a chiedermi se non mi fossi perso degli indizi importanti.
Percorsi il viale, con la schiena curva per essere pronto a fronteggiare un attacco da qualunque direzione. Provai a distendermi, ma era più forte di me.
Salii gli scalini dell’ingresso principale. Poi mi fermai, esitante. Ma decisi di agire apertamente: avrei suonato il campanello o avrei bussato. Al tatto, nell’oscurità, riuscii a trovare il pulsante. Era mezzo staccato, si capiva che non funzionava, ma ci provai. Dall’interno della casa non venne alcuno squillo. Riprovai, tenendolo premuto a lungo, ma con lo stesso risultato. Bussai allora con le nocche. Il rumore risuonò nella quiete notturna.
Attesi, non accadde nulla. Mi parve di udire dei passi. Ascoltai, più nulla.
Scesi la gradinata e girai intorno alla casa. Le piante erano cresciute disordinatamente. Il terreno era coperto di foglie secche che, fermentando, emettevano un odore acre.
La quinta finestra che esaminai era solo accostata. Mi parve facile, troppo facile. Se mi aspettavo una trappola, poteva essere proprio lì.