— Un momento — intervenni. — Come fate a possedere tanto denaro?
Ma l’idea che mi assillava non riguardava i soldi. Ciò che mi tambureggiava nella testa era molto più importante. Atwood aveva sempre parlato al plurale: “agiamo”, “non abbiamo violato”, “i nostri capitali”. Mentre con l’aggettivo “vostro” si riferiva a tutto ciò che non faceva parte del suo mondo e di quello della sua organizzazione. Infine, il modo in cui sottolineava che era tutto regolare.
Mi sentivo il cervello diviso nettamente in due. Una parte era terrorizzata. L’altra mi invitava a ragionare, perché l’idea era troppo mostruosa per prenderla in seria considerazione.
Adesso Atwood sogghignava, e mi prese una furia improvvisa. Le grida che emetteva una metà del mio cervello prevalsero sulla ragione, e mi alzai dalla poltrona, tentando di estrarre la pistola.
Volevo ucciderlo all’istante, senza pietà, senza pensarci. A bruciapelo. Come schiacciare un serpente o un ragno, perché altro non era.
Ma non potei sparare neanche un colpo.
Atwood si era… dissociato.
Non so come dirlo. Non esistono parole nella lingua degli esseri umani che riescano a descrivere quello che fece Atwood. Non era svanito, né si era sciolto, né dissolto. Il cambiamento era stato istantaneo. Un attimo prima sedeva di fronte a me. Un attimo dopo, non c’era più. E non l’avevo visto andare via.
Sentii solo un tintinnio, come se fosse caduto un leggero oggetto metallico, quindi vidi un gruppo di sfere nere che saltellavano sul pavimento, e che, prima di mettersi a saltellare, semplicemente non esistevano.
Mentre la mia mente faceva acrobazie interpretative per conto suo, agii d’istinto, senza pensare, ignorando le relazioni tra causa ed effetto, lasciando nell’inconscio la sequenza fatto-ipotesi-soluzione, che tuttavia spinse il mio sistema nervoso all’azione.
Lasciai cadere la pistola e mi chinai ad afferrare il foglio di plastica dal pavimento. Scrollandolo, avanzai di corsa verso il muro, in direzione del buco dal quale veniva la corrente d’aria gelida.
Le sfere mi si avvicinarono, dirette com’erano a quello stesso foro. Io le attesi disponendo la plastica sull’apertura, in modo da formare una trappola.
La prima sfera vi cadde dentro, e così una seconda, terza, quarta e quinta.
Riunii i lembi del foglio di plastica e l’estrassi dal buco, mentre le sfere si agitavano all’interno, urtandosi disordinatamente.
Altre, quelle che non erano cadute in trappola, erano rimaste a rotolare sul pavimento, e si muovevano freneticamente alla ricerca di un nascondiglio.
Sollevai l’improvvisato sacco di plastica e lo scossi per far cadere bene in fondo le prede che avevo catturato. Con i lembi superiori feci una specie di nodo, stringendo forte il sacco e caricandomelo in spalla, mentre intorno a me continuavano a scivolare e sussurrare le altre bocce, cercando salvezza negli angoli.
— Ok! — gridai loro. — Ora, se volete, potete tornarvene nel buco da cui siete uscite!
Non ebbi risposta. Si erano tutte nascoste nell’ombra, in mezzo al ciarpame che abbondava in quel luogo, a spiare ogni mio movimento. Probabilmente non mi vedevano in senso stretto, però mi avvertivano con altri sensi. Fosse come fosse, mi osservavano.
Feci per muovermi, ma urtai in qualcosa. Sussultai spaventato. Era la mia pistola, finita lì quando mi ero chinato per afferrare la plastica.
Mi fermai a guardarla, sentendo come una vibrazione dentro, che lottava per venir fuori ma senza riuscirci, perché il mio corpo era troppo teso per cominciare a tremare. I denti erano sul punto di mettersi a battere, ma non lo facevano, perché le mascelle erano strette da una disperazione così convulsa da farmi male ai muscoli.
Da ogni parte c’erano presenze che mi osservavano. Il soffio gelido continuava. Le sfere tintinnavano ancora, più agitate che adirate, nel sacco che avevo sulle spalle. E vi era quel gran senso di vuoto, in quel sotterraneo dove c’erano stati due uomini, e ne era rimasto uno solo. Ancor peggio, un vuoto ululante che circondava l’Universo impazzito, e una Terra che aveva perso il suo senso, e una cultura che adesso arrancava verso la distruzione, sebbene in quel momento non ne fossi ancora cosciente.
Avvertivo dappertutto l’odore che avevo già sentito la mattina. L’odore di quegli strani esseri, dei quali ignoravo l’essenza, la provenienza, gli scopi. Di certo, non appartenevano al nostro vecchio pianeta Terra, e l’umanità non ne aveva mai avuto notizia.
Cercavo di non ammettere ciò che invece ormai sapevo bene: l’idea di trovarmi di fronte a forme di vita che arrivavano da “fuori”, da un pianeta diverso da quello in cui mi trovavo. Eppure, che altra soluzione c’era?
Deposi il sacco, e nel chinarmi per raccogliere la pistola, notai qualcosa che giaceva a terra poco discosto.
Lasciai andare la pistola e afferrai l’oggetto. Un pupazzo. Prima ancora di guardarlo, ero sicuro di indovinare di cosa si trattasse, ricordando il rumore che si era sentito quando Atwood era scomparso.
Non mi ero sbagliato: l’oggetto lo riproduceva in ogni particolare, quasi che fosse stato realizzato comprimendo a dimensioni ridottissime l’Atwood vivo, senza modificare una sola linea delle sue sembianze, un solo atomo del suo corpo.
Misi il pupazzo in tasca e impugnai la pistola. Mi alzai, mi caricai di nuovo il sacco sulle spalle e, attraversato il sotterraneo, mi diressi alla scala.
Volevo correre, ma con tutte le forze mi imposi di non farlo. Dovevo fingere di non essere spaventato, fingere che non esistesse niente al mondo che potesse atterrire un uomo e metterlo in fuga.
Dovevo fargliela vedere! Sull’onda dell’emozione, d’istinto, sentivo di doverlo fare per il bene di tutto il genere umano. Dovevo dare prova del coraggio, della determinazione e della forza di volontà che anima la nostra razza.
Non so come, ma lo feci. Attraversai a passo normale tutto il sotterraneo e salii la scala senza fretta, pur sentendomi nella schiena i loro sguardi acuminati. Raggiunsi la sommità della scalinata e chiusi la porta, facendo attenzione a non sbatterla.
Finalmente libero di agire senza simulare, attraversai di corsa il corridoio, aprii la porta in qualche maniera e uscii nella notte, respirando a pieni polmoni l’aria fresca che soffiava dal lago, che mi lavò le narici e il cervello dalle brutture incontrate nel sotterraneo.
Mi appoggiai a un albero, debole e malfermo, sfinito e dolorante nel profondo del corpo e dell’anima. Allora cominciai a tremare e a sentirmi soffocare. Vomitai. Il sapore acido del vomito fu quasi il benvenuto, perché era qualcosa di così profondamente umano.
Rimasi lì, con la fronte appoggiata alla superficie ruvida della corteccia, e anche lei mi consolava con la sua terrestrialità. Le onde battevano contro la riva, le foglie morte intrecciavano una danza di morte, restando appese alla pianta che le aveva generate. In lontananza un cane abbaiò.
Infine mi scostai dall’albero, pulendomi la bocca con una manica. Tempo di muoversi. Avevo trovato una prova, ora, per sostenere la mia storia. Un sacco pieno di quelle cose strane, che avrei portato come testimonianza del mio racconto.
Rimisi il sacco in spalla e, nel farlo, avvertii di nuovo il solito odore alieno.
Le gambe non mi reggevano quasi più, ero sfinito e sentivo freddo. Avevo il bisogno maledetto di una bevuta.
A passi malfermi mi diressi verso la macchina, una macchia scura sul sentiero. La casa incombeva ancora alle mie spalle. La luna rifletteva un raggio d’argento da una delle finestre in alto.
Mi colpì un pensiero assurdo: avevo lasciato la finestra aperta, forse avrei dovuto tornare indietro a chiuderla. Il vento avrebbe ammucchiato le foglie nella stanza, sul bianco sudario del mobilio; la pioggia avrebbe rovinato i tappeti, e la neve, portata dal vento, si sarebbe accumulata all’interno.