Rimisi giù il ricevitore e notai che la mano mi tremava.
Rimasi al buio, sentivo il terrore che mi avvolgeva. Quando provai a toccare quel terrore, non incontrai nulla. Non era affatto terribile, ma comico: una trappola tesa davanti a una porta, un branco di palle da bowling che rotolano in fila indiana lungo una stradina di campagna. Scene da un cartone animato. Era semplicemente qualcosa di troppo ridicolo per crederci. Roba da farti crepare dal ridere, mentre ti faceva crepare.
Se davvero quella cosa voleva uccidere. E quella, certo, rimaneva la domanda: era fatta per uccidere?
Quella messa alla mia porta era una vera trappola, di buon acciaio? O un giocattolo di plastica o di qualche materiale simile?
Ma la domanda più difficile era: era davvero là? Ne ero certissimo, perché l’avevo vista. Ma la mia mente tentava di respingere questa certezza. E lo faceva per un egoistico senso di sicurezza, mentre la logica si ribellava a questo pensiero. Sapevo di essermi ubriacato, non però fino a quel punto. Non ero ubriaco fradicio, non avevo avuto visioni; mi tremavano solo un po’ le mani e non ero troppo saldo sulle gambe.
Adesso era tutto a posto. Tranne per quel tremendo e solipsistico vuoto mentale. Tipo tre sbornie, e di quelle peggiori.
Ora la vista si era adattata al buio, e potevo distinguere i contorni indefiniti del mobilio. Mi avviai in cucina senza più inciampare. La porta era accostata e filtrava una lama di luce. Avevo lasciato la luce accesa quando ero andato a letto e l’orologio sul muro segnava le tre e mezzo.
Scoprii di avere addosso ancora metà dei vestiti, ben spiegazzati. Senza scarpe e con la cravatta slacciata, ma ancora penzolante dal colletto. Ero un vero disastro.
Mi fermai a pensare. Se fossi tornato a letto, avrei dormito sodo fino a mezzogiorno e forse anche oltre, e al risveglio mi sarei sentito in uno stato miserevole.
Se invece mi fossi rimesso in ordine, avrei potuto mangiare qualcosa, andare presto in ufficio, prima degli altri, avrei fatto molto lavoro e me ne sarei uscito prima, assicurandomi un piacevole fine settimana. Era venerdì, e avevo un appuntamento con Joy. Rimasi fermo per un po’, senza far niente, sentendomi bene al solo pensiero di venerdì sera e di Joy.
Stilai un programma: c’era giusto il tempo di preparare il caffè mentre facevo la doccia. Per colazione, un toast, uova al prosciutto e tanto succo di pomodoro, che fa un sacco di bene quando uno sente un gran vuoto in testa.
Ma, prima di qualunque altra cosa, volli dare un’occhiata alla moquette di fuori. Aprii la porta e guardai. Di fronte a me c’era l’assurdo semicerchio di pavimento nudo.
Visto?, dissi alla mia mente dubbiosa. Tornai in cucina a far bollire l’acqua per il caffè.
3
La redazione di un giornale è un luogo freddo e triste, di primo mattino: grande, vuoto, e così pulito da deprimere. Con l’avanzare del giorno assume l’aspetto consueto, caldo e umano, con i ritagli e i documenti sparsi sui tavoli, le bozze appallottolate sul pavimento, gli spuntoni di ferro che emergono dal mare di carte sulle scrivanie. Ma al mattino, dopo il giro della squadra delle pulizie, la redazione ha il pallore di una sala operatoria. Le poche luci accese sembrano fin troppo chiare, e le scrivanie spoglie e le sedie vuote sono messe così in ordine da evocare la più teutonica efficienza… efficienza che, più tardi lungo la giornata, appare velata dalla frenetica attività dei colleghi, allorché tutto l’ufficio è nel caos, e quella strana impressione di trovarsi in manicomio, che accompagna ogni edizione del giornale, cresce verso il suo climax.
La squadra dell’edizione del mattino era andata a casa da qualche ora. Anche Joe Newman. Avevo sperato di trovarlo ancora, ma la sua scrivania era in ordine e pulita come tutte le altre e non c’era traccia di lui.
I barattoli di colla, tutti ripuliti e riempiti, facevano bella mostra di sé sui tavoli della cronaca locale e dei grafici, ogni barattolo corredato del suo pennello allegramente immerso nella colla e inclinato. I testi usciti dalle telescriventi erano impilati con cura geometrica sulla scrivania della cronaca estera. Da un angoletto arrivava il ticchettìo sommesso delle telescriventi stesse, che macinavano il grano delle notizie da tutto il mondo.
Da qualche parte, dalle confuse semioscurità della redazione, si sentiva fischiettare un fattorino. Uno di quei motivetti acuti e stridenti che hanno poco di melodioso. Mi fece trasalire: c’era qualcosa di fastidioso nel fatto che qualcuno si mettesse a fischiettare a quell’ora di mattino presto.
Mi avvicinai alla mia scrivania e sedetti. Gli addetti alla pulizia avevano ammonticchiato tutte le riviste e i giornali scientifici che il giorno prima avevo accuratamente scremato per mettere da parte il materiale che mi serviva per un articolo. Guardai amaramente la pila, e bestemmiai pensando che dovevo rifare tutta la fatica per ritrovare i testi di cui avevo bisogno.
Sul tavolo c’era anche una copia fresca della prima edizione del mattino. La presi e mi sprofondai nella poltroncina girevole, cominciando a scorrere le notizie. Ancora disordini in Africa, la situazione in Venezuela era sempre caotica. Una rapina in una drogheria del centro poco prima della chiusura, con la fotografia di un commesso che indicava a un agente dall’aria annoiata il punto in cui si era fermato il rapinatore. La dichiarazione del governatore che il prossimo anno si sarebbero dovute trovare nuove entrate, altrimenti lo Stato avrebbe dichiarato bancarotta. Queste cose il governatore le aveva dette già svariate volte.
In prima pagina, in alto a sinistra, era pubblicata una rassegna economica della regione, compilata da Grant Jensen, redattore finanziario della squadra del mattino. Grant rivelava di essere in fase di ottimismo professionale, poiché scriveva che gli affari andavano bene. Nei negozi le vendite erano in rialzo, nessuna controversia sindacale all’orizzonte, tutto appariva sotto una luce rosea. E questo era particolarmente vero, continuava l’articolo, nel campo edilizio. La domanda di alloggi aveva superato la disponibilità del mercato, così che tutte le imprese avevano prenotazioni per un anno.
Non potei trattenere uno sbadiglio. Era tutto vero, senza dubbio, ma era la solita pappina che gli idioti come Jensen continuavano a propinare da sempre. Però all’editore sarebbe piaciuto, perché era il genere di cose che gli inserzionisti amavano, e promuoveva una mentalità da “fine della crisi”. I vecchi squali della finanza avrebbero amabilmente commentato l’articolo durante la pausa pranzo. E anche se le cose fossero andate al rovescio, con vendite al tracollo, edilizia in ginocchio, licenziamenti a catena, non se ne sarebbe vista una riga scritta, almeno finché la situazione non fosse diventata insostenibile.
Richiusi il giornale e lo misi in un angolo. Aprendo il cassetto, ne tirai fuori gli appunti buttati giù il giorno prima e cominciai a rileggerli.
Fulmine, il fattorino del primo turno, uscì dall’ombra e si fermò vicino alla mia postazione.
— Buongiorno, signor Graves — disse.
— Eri tu che fischiettavi? — gli chiesi.
— Già, immagino di sì. — Posò una bozza sul tavolo. — Ecco il suo articolo di oggi, quello sulla scomparsa dei mammut e degli altri bestioni.
Guardai la bozza. Come al solito, qualche tipografo burlone mi aveva cambiato il titolo.
— È venuto presto in ufficio, signor Graves — disse Fulmine.
— Devo preparare gli articoli per due settimane. Parto per un viaggetto — spiegai.
— Ne ho sentito parlare — disse Fulmine. — Roba di astronomia.
— Farò il giro dei più grandi osservatori astronomici. Devo preparare un servizio sui viaggi nello spazio. Galassie e cose del genere.