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— E questo che c’entra?

— Forse niente — spiegò Joy. — Non intendevo dire quello. Volevo dire che, quantunque questi esseri cerchino di imitarci, di studiarci, non riusciranno mai a pensare come noi.

— Perciò credi che, quando non riescono a uccidere qualcuno dopo aver tentato due volte, ci rinuncino?

— Più o meno. Comunque non faranno lo stesso tentativo due volte.

— Quindi, per ora sono al sicuro da trappole, bombe, e da quell’affare che si muoveva nell’armadio…

— Può essere una loro forma di superstizione — disse Joy. — Può far parte della loro logica, che non conosciamo.

Capii che aveva rimuginato per tutto il tempo sui pochi dati, o “quasi dati”, a disposizione. Secondo me, però, era davvero impossibile farsi un’idea esatta della cosa. Troppo pochi elementi su cui ragionare. Usavamo categorie umane, sforzandoci di entrare dentro la testa di un alieno, ma senza avere la minima idea di come funzionasse. Anche a saperlo, poi, non c’erano garanzie che le deduzioni sarebbero state corrette.

In un certo senso, Joy aveva ragionato al contrario. Gli alieni, non importa quanto impegno ci mettessero, non sarebbero mai riusciti a pensare come noi. Eppure avevano più possibilità loro di capire il nostro bizzarro cervello che viceversa, se non altro perché ci avevano studiato, chissà per quanto tempo. E a questo si erano dedicati in tanti, forse tantissimi. Aspetta un attimo, però: questo era il modo giusto di impostare il problema? E se ce ne fosse stato Uno solo, in grado di suddividersi in infinite palle da bowling, in modo da potersi trovare simultaneamente in luoghi diversi, sotto forme diverse?

Anche ammesso che fossero singoli individui, il legame tra loro risultava molto più profondo che tra un uomo e l’altro. Infatti occorreva un intero gruppo di sfere per simulare un singolo essere umano, come Atwood o la ragazza del bar. Per riuscirci, gli alieni dovevano essere perfettamente coordinati. Da molti, diventare uno.

Superato il viale dell’Università, mi diressi verso il centro.

— E adesso? — le chiesi per avere lumi.

— Non me la sento di tornare a casa — disse Joy. — Potrebbero essere ancora là.

Annuii, chiedendomi intanto che cosa potesse essere il mostro nascosto nel suo giardino. Doveva trattarsi di una bestia feroce, o, per meglio dire, della simulazione di una bestia feroce di un altro pianeta. O di più bestie feroci. Forse un’accozzaglia di forme orribili, destinate a spaventare più che a fare del male. Forse un’esca per attirare insieme Joy, me e il Cane, tre in un colpo. Ma se avevano progettato di ucciderci, anche quella volta il loro piano era fallito.

Il Cane aveva accennato che le sfere non arrivavano mai fino in fondo, non agivano con tutte le loro energie, preferivano le mezze misure. Cercavo di ricordarmi con esattezza le sue parole, ma avevo la testa stanca. Troppi avvenimenti si erano accavallati.

Mi chiedevo anche dove fosse andato a finire il Cane.

— Parker, dobbiamo riposarci — disse Joy. — Abbiamo bisogno di qualche ora di sonno.

— Già — risposi. — Si potrebbe andare a casa mia?

— No, sarebbe lo stesso di casa mia. Che ne diresti di cercare un motel?

— Ho in tasca solo un paio di dollari, Joy. Mi sono dimenticato di ritirare la paga.

— Io invece l’ho ritirata, e mi sono portata dietro un po’ di soldi — disse Joy.

— Joy, non voglio…

— Lascia perdere. Nessun problema, davvero. Continuammo la corsa in macchina.

— Che ora è? — le chiesi dopo un po’.

— Quasi le quattro — disse Joy, guardando il suo orologio alla luce del cruscotto.

— Che nottata! — esclamai.

Joy si appoggiò con stanchezza allo schienale e mi guardò.

— Altroché — disse. — Una macchina saltata in aria con dentro un povero ragazzo, ma grazie a Dio non eri tu, Parker. Un amico ucciso, senza lasciare tracce, da una cosa venuta da un altro mondo. E la reputazione di una brava ragazza che va a farsi fottere, perché ha così sonno da chiudersi con un uomo in una stanza di motel…

— Sta’ tranquilla — le dissi. Voltai, cambiando strada.

— Dove vai?

— In redazione. Devo fare una chiamata interurbana, ed è meglio farla pagare al giornale.

— Chiami Washington?

— Proprio. Il senatore Hill. È ora che gliene parli.

— A quest’ora di notte?

— A questa o a qualsiasi. È un rappresentante del popolo, no? Almeno, è quello che lui ripete sempre, specie in tempo di elezioni. E in questo momento tutta la nazione, tutta la maledetta nazione, ha bisogno di un buon rappresentante.

— Non gradirà lo stesso — commentò Joy.

— Non lo pretenderò da lui.

Accostai al marciapiede opposto al palazzo del giornale. Era tutto spento, eccetto una finestra al terzo piano, e le luci della tipografia al primo.

— Vieni su con me?

— No — rispose Joy. — Preferisco aspettare qui. Chiuderò gli sportelli. Terrò a bada chiunque volesse piazzare un’altra bomba.

27

L’ufficio era deserto, con quell’aria fredda, ma piena di aspettative, di una redazione deserta. Non vidi nessun portinaio, benché ce ne fossero in servizio. Neanche Fulmine si vedeva in giro. Doveva essere in servizio, a quell’ora, ma certamente aveva scovato un angolo tranquillo per schiacciare un pisolino.

Le poche luci accese non facevano che accrescere l’atmosfera spettrale, come lampioni in lontananza lungo un viale immerso nella nebbia.

Sedetti alla mia scrivania, allungai la mano sulla cornetta del telefono, ma non la alzai. Rimasi lì, immobile e in ascolto, senza la più pallida idea di che cosa stessi ascoltando. Forse solo il silenzio. Nell’open space tutto era tranquillo, non si sentiva volare una mosca. Anche il mondo dava l’impressione di essere così quieto e pacifico, come se il silenzio dell’ufficio si espandesse da quelle quattro mura per avvolgere la Terra.

Sollevai lentamente il ricevitore e chiamai il centralino. Mi rispose una voce sonnolenta, che rimase educatamente sorpresa quando le dissi il nome della persona che volevo al telefono. Sembrava quasi risentita che io chiamassi una personalità importante a quell’ora di notte. Ma riuscì a trattenersi e disse che mi avrebbe richiamato appena avesse avuto la comunicazione.

Rimisi a posto il ricevitore, mi allungai in poltrona, e cominciai a pensare. Ma le ore cominciavano a farsi sentire, e il cervello era intorpidito. Per la prima volta, mi accorsi di essere stanco. Molto.

Mi sembrava di essere seduto nella nebbia, nel più assoluto silenzio, al confuso bagliore di luci lontane. E la mente annebbiata presentava un’immagine della Terra così com’era. Un pianeta silenzioso, stanco, rassegnato alla totale distruzione, senza che nessuno potesse fare qualcosa.

Squillò il telefono.

— La sua chiamata, signor Graves — disse la centralinista.

— Pronto, Rog? — dissi.

— Sei davvero tu, Parker? — rispose la voce lontana. — Che cavolo ti prende, a quest’ora di notte?

— Rog, è della massima importanza — dissi. — Sai che non ti avrei disturbato, in caso contrario.

— Spero che sia così. Sono andato a letto solo un paio d’ore fa…

— Grattacapi? — chiesi.

— Una riunione. Abbiamo discusso di parecchie cose.

— C’era qualcuno preoccupato?

— Preoccupato di che? — chiese con indifferenza.

— Delle somme enormi che affluiscono alle banche, per esempio.

— Ascolta bene, Parker — rispose — se cerchi di cavar fuori qualcosa da me, perdi tempo.

— Non voglio strapparti nessun segreto di Stato. Piuttosto, sono io che ho bisogno di rivelarti delle cose. Sarà un po’ difficile da spiegare, ma desidero che tu mi creda.