— Già, incredibile — dissi.
— Mi hanno spiegato che, se avessero avuto più operai, avrebbero potuto farmi una casa. Ma gli operai mancavano. Tutti occupati. Tutti in cantiere. Rimandammo la consegna della vecchia casa di un mese, di due, e infine di tre mesi, ma poi dovemmo sloggiare. Offrii al nuovo proprietario cinquemila dollari per annullare la vendita, ma non accettò. Disse che gli spiaceva, ma aveva comprato la casa perché ne aveva bisogno. Mi aveva già concesso tre mesi di dilazione e non poteva più aspettare. Aveva ragione. Ma non avevamo un buco dove andare. Non qui, intendo. Certo, potevamo mandare i ragazzi da qualche parente fuori città, ma potevamo dividere la famiglia? Alcuni parenti poi avevano già dei problemi per conto loro. Amici tanti, ma mica ci si può installare a casa loro. E neppure puoi fargli vedere come sei ridotto, c’è una dignità da difendere. Insomma, ho tentato dappertutto: alberghi e motel completi, niente camere in affitto. Ho pensato di comprare una roulotte: c’era una lunga lista di persone prima di me, disposte ad attendere, Dio santo, fino a cinque anni.
— Ed eccovi qui — commentai.
— Eh, sì — disse. — Almeno è fuori mano e tranquillo. Non passano macchine, perciò possiamo dormire. E non passa neanche gente. Però è dura, specie per mia moglie e i ragazzi. È un mese ormai che viviamo in macchina. Quando possiamo, mangiamo ai ristoranti, ma sono quasi sempre pieni. Perlopiù mangiamo in qualche drive-in. Altre volte compriamo qualcosa e andiamo in campagna a fare un pic-nic. Prima era uno svago, ora non attrae più neanche i ragazzi. Usiamo i bagni delle stazioni di servizio. Laviamo la biancheria alle lavanderie automatiche. Vado ogni mattina al lavoro con la macchina, poi mia moglie porta i ragazzi a scuola, e passa il tempo cercando casa, in attesa di riprendere i bambini da scuola. Poi vengono tutti all’ufficio, e insieme ci diamo alla ricerca di un posto dove cenare. Un mese, sempre così. Ma non ce la facciamo più. I miei figli continuano a chiedermi quand’è che avremo di nuovo una casa. L’inverno è alle porte. Dovremo trasferirci in un’altra città dove si possa trovare una sistemazione. Una casa, una pensione, qualunque cosa. Dovrò lasciare il mio posto…
— Non ci guadagnerà nulla — lo interruppi. — Dovunque andrete, la situazione sarà la stessa.
— Ma cosa diavolo sta succedendo? — esclamò Quinn in tono disperato.
— Non lo so — risposi. Non volevo dirgli nulla. Gli avrei fatto più male. Era meglio che non sapesse. Almeno per ora.
E presto sarà così dappertutto, pensai. La popolazione mondiale sarebbe diventata un’immensa carovana di nomadi, vagante qua e là alla ricerca di un posto migliore. Ma non ci sarebbe stato nessun posto “migliore”. Prima si sarebbero riuniti in gruppi familiari, poi avrebbero formato dei clan più allargati. Alla fine un buon numero di uomini sarebbero stati rinchiusi in riserve, come unica risorsa rimasta ai governi ancora in vigore. Fino alla fine però sarebbero esistite bande di vagabondi, tutte impegnate a strapparsi il cibo di mano l’una con l’altra. Tanto per cominciare, ogni rifugio sarebbe stato considerato lecito, che si trattasse della propria casa o di quella altrui. All’inizio avrebbero lottato per il cibo, rubandolo e ammassandolo da qualche parte. Poi però gli alieni avrebbero cominciato a distruggere case e depositi, in qualità di “legittimi proprietari”. Unica reazione rimaneva una guerriglia clandestina. Intanto, gli alieni si sarebbero sentiti con la coscienza a posto, perché era tutto perfettamente legale, e avanti con le distruzioni. Nessun modo per ribellarsi, almeno non a breve termine. Come combattere contro gli Atwood? Contro le palle da bowling? Li si poteva solo odiare. Sfuggenti, difficili da uccidere, sempre in grado di battere in ritirata su qualche altro mondo.
A un certo punto non ci sarebbero più state case né cibo. Chissà, forse l’Uomo avrebbe trovato lo stesso un modo per sopravvivere. Ma dove prima c’erano mille persone, ora ne sarebbe rimasta solo una. Quel giorno, gli alieni avrebbero vinto una guerra senza neppure combattere. L’Uomo si sarebbe ridotto a un imboscato sul pianeta di cui era stato il signore.
— Non mi ha detto il suo nome — chiese l’assicuratore.
— Graves — risposi.
— Ebbene, Graves, che mi dice? Cosa dobbiamo fare?
— Quello che avreste dovuto fare sin dall’inizio. Entriamo qui. La vostra famiglia avrà un tetto, potrà cucinare, potrà fare il bagno.
— Ma sarebbe un reato! — osservò.
Era vero. Anche se messo con le spalle al muro, l’uomo onesto ha sempre rispettato la legge sulla proprietà. Non si ruba. Non ci si introduce in casa altrui. Non si tocca la roba d’altri. Erano proprio queste leggi, che continuavamo a rispettare anche mentre ci si ritorcevano contro, che ci avrebbero privati dei più elementari diritti.
— Le serve un posto dove far dormire i ragazzi — gli dissi. — La bella stagione è finita.
— Ma se ci vedesse qualcuno…
— Se viene qualcuno e cerca di cacciarvi — dissi — accoglietelo a fucilate.
— Non ho un fucile — osservò.
— Ne compri uno — gli consigliai. — Domani mattina, subito, non se lo scordi.
Mi colpì la facilità con cui, da cittadino ligio alle leggi, mi fossi trasformato in uomo pronto a stabilire un’altra legge, e a difenderla o a morire per essa.
29
Mi svegliai ai raggi del sole che penetravano attraverso le veneziane. Mi trovavo in una camera silenziosa, confortevole, che mi ci volle un po’ per riconoscere.
Rimasi sdraiato con gli occhi semichiusi, senza pensare a nulla, senza far nulla. Mi inebriavo della luce del sole e godevo di quel silenzio, del letto soffice, e del sottile profumo che aleggiava nell’aria.
Sembrava proprio il profumo di Joy…
— Joy! — chiamai improvvisamente, tirandomi su sul materasso. Di colpo ricordai tutto: la nottata, la pioggia, e tutto il resto.
La porta della camera vicina era aperta, ma non c’erano segni di vita.
— Joy! — gridai, buttandomi giù dal letto.
Il pavimento era freddo e dalla finestra aperta arrivava un soffio gelido.
Andai alla porta di collegamento con l’altra camera e lanciai un’occhiata. Il letto era disfatto. Ma Joy non c’era. C’era invece un suo biglietto attaccato allo stipite della porta con uno spillo. Diceva:
Caro Parker,
ho preso la macchina per andare al giornale. Devo completare un artìcolo per l’edizione di domenica. Tornerò nel pomeriggio. Dov’è finita la tua vantata intraprendenza con le donne? Non mi hai neanche fatto un’avance.
Tornai a sedere sul bordo del mio letto. Pantaloni, camicia e giacca erano buttati di traverso su una sedia. Sotto c’erano le scarpe, con i calzini arrotolati all’interno. In un angolo c’era il fucile che mi aveva restituito Stirling. Mi ricordai che era in macchina, quindi l’aveva portato dentro Joy prima di andare in ufficio.
Sarebbe tornata nel pomeriggio, diceva, ed era uscita senza rifare il letto. Come se desse per scontato che saremmo stati costretti a vivere in quel modo, d’ora in avanti. Non c’era altra via d’uscita, e lei si adattava.
Anche l’Uomo forse avrebbe dimostrato la stessa capacità di adattamento. Felice di trovare una soluzione in mezzo alla situazione più disperata. Dopo qualche tempo, però, non sarebbero subentrate la rabbia e l’amarezza, e la consapevolezza che tutto era finito?
Joy era andata in ufficio a rifinire l’articolo per l’edizione della domenica. Il nostro vicino aveva continuato a lavorare per le assicurazioni, anche se il suo mondo gli stava crollando attorno. Naturalmente, erano cose da fare, perché bisogna pur campare, e quindi il denaro serve sempre. Ma forse, pensai, agivamo così per un motivo diverso: per non perdere il contatto con la realtà, per crearci l’illusione che solo una parte della nostra vita era cambiata, mentre rimaneva immutato l’ordinato tran-tran quotidiano.