Attraversai il parcheggio camminando cautamente, stringendo il sacco con la forza della disperazione per evitare che la breccia nella carta si allargasse.
Finalmente arrivai alla macchina senza combinare disastri. Contorcendomi come un acrobata, riuscii ad aprire lo sportello e a lasciar cadere la borsa sul sedile, ma senza troppa cautela. Con il risultato che il contenuto si sparse per l’abitacolo, così che dovetti spingere pacchetti, scatole e barattoli dall’altra parte del sedile per prendere posto alla guida.
Se non avessi dovuto compiere tutti quei maneggi, lo avrei notato prima. Invece lo vidi solo nell’istante in cui mi chinavo per infilare la chiavetta di accensione.
Un biglietto piegato a V, come una piccola tenda piantata sul cruscotto. Sopra c’era stampata una sola parola, a grandi caratteri: CAROGNA.
Rimasi bloccato in quella posizione.
Non ebbi bisogno di chiedermi chi l’avesse messo lì. Non avevo alcun dubbio. Era come se lo vedessi: un qualche pseudo-umano, un qualche agglomerato di palle da bowling, per farmi sapere che “loro” erano a conoscenza della mia telefonata al senatore. Avevano previsto che avrei fatto il doppio gioco, se ne avessi avuta la possibilità. Forse non erano neanche arrabbiati, solo disgustati. Delusi. E mi avvisavano che ero sorvegliato. E che comunque non avrei concluso niente.
Avviai il motore. Presi il foglio, lo appallottolai e lo scagliai fuori del finestrino. Se mi spiavano, com’ero convinto, avrebbero capito cosa pensavo di loro.
Non mi importava di sembrare un ragazzino. Non mi importava più di niente.
Fu tre isolati più avanti che notai l’automobile. Non aveva niente di eccezionale, un modello comune color nero, di quelli che si vedono cento volte al giorno senza farci caso. Ma mi seguiva.
Superai un altro paio di isolati, ed era ancora dietro. Feci un paio di svolte, e rieccola. Non restavano molti dubbi in merito, e quella non faceva neppure niente per nasconderlo.
Uscii dalla città, e la macchina mi era sempre dietro, a qualche centinaio di metri, senza tentare di mascherare l’inseguimento. Forse volevano che sapessi che ero seguito, per tenermi sotto pressione.
Mi chiesi se non fosse il caso di dare una lezione anche a questi, ma non ne vidi la ragione. Anche se li avessi sistemati come gli altri, non avrei risolto nulla. Avevano intercettato la mia telefonata al senatore. Era più probabile che sapessero anche dove si trovava la mia base operativa, per usare un parolone. Sapevano dove trovarmi in qualsiasi momento.
Se però avessi fatto finta di non accorgermi di essere spiato, forse avrei ottenuto un piccolo vantaggio. Valeva la pena di provare a fare il tonto.
Imboccai la statale che portava verso ovest, e pigiai forte sull’acceleratore. Li distaccai subito di un bel po’, sebbene non eccessivamente.
Davanti a me la strada si svolgeva in curve su per una collina, con una curva più stretta verso la cima. Mi ricordai che all’uscita di quella curva c’era una stradina laterale di campagna, poco battuta, in cui, con un po’ di fortuna, mi sarei potuto infilare e scomparire alla vista dei miei inseguitori.
Accelerai ancora, riuscendo a distanziarli maggiormente. Accelerando ancora di più, mentre l’altra macchina era dietro la curva, raggiunsi l’incrocio con la strada laterale. Diedi un violento colpo di freni, girai completamente lo sterzo. La macchina si aggrappò al terreno, mentre le ruote posteriori slittavano. Raddrizzai e diedi tutto gas.
La strada era a salti, tutto un susseguirsi di dossi e cunette. Dalla sommità del terzo dosso, nello specchietto retrovisore, vidi che gli inseguitori si stavano arrampicandosi sul secondo di essi.
Mi ero sentito così sicuro di averli seminati, che questo fu un brutto colpo. Uno shock. E una rabbia…
Improvvisamente scorsi una vecchia strada di campagna, interamente coperta dall’erba e quasi nascosta dai molti rami che la invadevano dagli alberi vicini.
Sterzai bruscamente, facendo saltare la macchina sul fondo stradale. I rami si chiusero come un sipario sul parabrezza, strisciando con forza contro il metallo della carrozzeria.
Guidai alla cieca, con le gomme che rimbalzavano sulla carreggiata semidistrutta. Infine mi fermai e smontai. Il fogliame copriva interamente la vista della macchina dalla strada.
Mi sfregai le mani, stavolta ero sicuro di averli ingannati.
Infatti la macchina nera superò la salita e si precipitò oltre, facendo un fracasso tremendo, che risuonò in quel silenzio pomeridiano. Doveva aver bisogno di una bella revisione.
Ma poi, con un prolungato stridìo di freni, si fermò al termine della discesa.
Non c’ero riuscito nemmeno questa volta. Sapevano che ero lì, nascosto da qualche parte.
Volevano il gioco duro. Bene. Aprii lo sportello, presi il fucile. La vecchia Betsy aveva sempre un aspetto rassicurante. Per un attimo mi chiesi se l’arma sarebbe servita a qualcosa contro quegli esseri, poi mi tornò in mente come Atwood si fosse disgregato quando avevo spianato la pistola, e la macchina che era precipitata lungo la scarpata quando avevo aperto il fuoco contro di essa.
Con il fucile in mano, mi allontanai a passi felpati lungo la stradina. Se mi stavano cercando, non mi avrebbero trovato dove speravano.
Attraversai un paesaggio silenzioso, pervaso di un forte odore autunnale. Dagli alberi cadeva una continua pioggia di foglie color ruggine, che andavano delicatamente a impigliarsi tra i rami del sottobosco, creando una specie di labirinto vegetale. Camminavo in perfetto silenzio; l’unico rumore che facevo era quando calpestavo inavvertitamente qualche ramo secco. Sotto i piedi avevo un tappeto di foglie e muschio che mi aiutava ad attutire il rumore.
Raggiunsi il limitare della macchia, mi incamminai verso la sommità della collina. Quando fui arrivato, mi acquattai dietro un cespuglio. Uno splendido nascondiglio, decorato di foglie rosso vivo. Ai miei piedi, la collina degradava verso un torrente. La macchia si estendeva con una curva in direzione della strada; più in basso, i fianchi del colle si aprivano in una vasta prateria cosparsa di erba essiccata, anch’essa costellata di arbusti dalle foglie rosse.
Poi, ecco l’uomo. Avanzando lungo la riva del torrente, aveva cominciato a salire i fianchi erbosi del colle. Si dirigeva dritto verso di me, come se sapesse che mi trovavo lì nascosto. Era un tipo comune, che camminava con la schiena leggermente curva in avanti, con vecchio feltro calato fino alle orecchie e un malandato abito scuro.
Veniva sicuro verso di me, senza alzare lo sguardo. Come facendo finta di non sapere. Aveva un’andatura strascicata, piuttosto lenta, mentre arrancava su per la collina, sempre con gli occhi fissi al terreno.
Alzai il fucile, lo appoggiai bene contro la spalla, feci spuntare la canna da in mezzo alle foglie rosse e presi la mira sulla sua testa.
Si fermò, come se sapesse di trovarsi sotto tiro. Stavolta sollevò la testa, e cominciò a farla ruotare sul collo. Si irrigidì, e quindi cambiò direzione, camminando lungo i fianchi della collina verso una piccola forra coperta di erba alta.
Nel riabbassare il fucile, avvertii la prima zaffata di aria mefitica.
Annusai meglio per esserne sicuro. Nessun dubbio: nelle vicinanze ci doveva essere una puzzola spaventata. Ghignai, pensando “Gli sta bene” al mio inseguitore. Il quale adesso correva in discesa tra le erbacce e gli arbusti, in direzione della forra. Poi, di botto, scomparve.
Mi stropicciai gli occhi, guardai di nuovo, ma non c’era più. Forse era inciampato, mi dissi. Ma ebbi quella stessa sensazione che avevo già provato in un’altra occasione, nel sotterraneo di casa Belmont, quando Atwood in un attimo era sparito dalla sedia, ed erano comparse le sfere saltellanti sul pavimento. Non avevo distolto lo sguardo nemmeno per un istante, e tuttavia mi ero perso lo spettacolo: un attimo prima Atwood stava seduto là, un attimo dopo al suo posto c’erano le palle da bowling. La cosa adesso si era ripetuta in quello splendido pomeriggio autunnale. Prima c’era un uomo che camminava nell’erba alta, e poi, di colpo, non c’era più.