— Per Giove! — disse. — Il giorno che i Grandi Magazzini Franklin andassero a fuoco, arrostendo il milione di persone che si trovano all’interno…
— Non avresti nessuno da mandare!
— Proprio così, Parker — disse lui, guardandomi con aria da gufo.
Nei suoi momenti tesi, diceva sempre quella frase. Il Franklin era il più grande dei grandi magazzini della città, nonché il nostro migliore inserzionista.
Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori. Cominciava a far chiaro. La città aveva l’aspetto tetro e gelido di una cosa non ancora viva, come una specie di terra polare tenuta sotto incantesimo. Poche auto per le strade. Pochissimi pedoni. Poche luci alle finestre degli edifici del centro.
— Parker… — fece Gavin.
Mi voltai dicendo: — Lo so, che non hai personale. Ma io ho da fare. Devo terminare un bel po’ di articoli, sono venuto in anticipo apposta.
— Me ne rendo conto — disse lui, con un vago sarcasmo. — Ci stai dando dentro…
— All’inferno! — risposi. — Sono ancora in fase di risveglio!
Tornai alla scrivania e cercai di lavorare.
Entrò Lee Hankins, il responsabile del reparto fotografia. Era fuori di sé perché il laboratorio gli aveva rovinato l’immagine di prima pagina, e bestemmiando si avviò di sotto per farla ritoccare.
Arrivarono altri, lo spazio cominciò ad animarsi. Uno mandò Fulmine a prendere il caffè per tutti, e lui uscì protestando.
Finalmente cominciai a lavorare. Ora andava meglio. Le idee mi si formavano in testa e fluivano facilmente in parole. Si era creata l’atmosfera adatta: quel particolare brusio indaffarato che caratterizza la redazione di un quotidiano.
Avevo terminato una colonna e stavo per cominciare la seconda, quando qualcuno si fermò vicino a me. Era Dow Crane, uno dei redattori finanziari. Dow mi è simpatico, perché non è una canaglia come Jensen. Dow scrive le cose come le vede, non le indora, non le falsa.
Mi sembrò triste, gli chiesi cosa avesse.
Mi offrì una sigaretta, pur sapendo che non fumo, ma offriva sempre. Rifiutai, lui ne accese una.
— Mi faresti un favore? — chiese.
Gli dissi di sì.
— Ieri sera un tale mi ha telefonato a casa. Verrà qui stamattina. Dice che non riesce a trovare un alloggio.
— Che tipo di casa cerca?
— Qualunque. Dice che ha venduto la sua tre o quattro mesi fa e ora non riesce a comprarne un’altra.
— È sfortunato — dissi, senza convinzione. — E noi che possiamo farci?
— Dice che non è il solo a trovarsi in queste condizioni, e che c’è un mucchio di gente nella sua situazione. Dice che non si riesce a trovare una sola casa libera in tutta la città.
— Ma è matto?
— Forse no — disse Dow. — Hai visto le inserzioni di questa mattina?
— No — risposi.
— Io le ho lette. Colonne e colonne di annunci di gente che cerca un buco di qualunque tipo, in qualunque posto. Alcuni sembrano disperati.
— Ma l’articolo di Jensen non sosteneva…
— Intendi quello sul boom dell’edilizia?
— Già — dissi. — Quel pezzo sul giornale, e ora il racconto di questo tizio… I conti non tornano, Dow.
— Forse no. Anzi, personalmente sono sicuro di no. Però senti, io devo andare all’aeroporto a incontrare un pezzo grosso. Solo così riuscirò a intervistarlo in tempo per la prima edizione. Se il tipo che mi ha telefonato venisse mentre sono fuori, gli parli tu?
— Certo.
— Grazie — disse Dow, e se ne andò alla sua scrivania.
Arrivò Fulmine portando i caffè nel portacarte di fil di ferro che abitualmente serviva al reparto fotografico. Cominciò subito un baccano d’inferno perché aveva portato un caffè alla panna che nessuno aveva ordinato, e tre con zucchero invece di due con e uno senza. E aveva fatto un casino con i bomboloni.
Tornai alla macchina da scrivere, mentre nell’ufficio l’attività assumeva un ritmo normale. Terminata la battaglia per il caffè tra Fulmine e i redattori, si era pronti a iniziare il lavoro a tutto vapore.
Ma non andai avanti per molto. Una mano mi scosse la spalla. Mi voltai. Era Gavin.
— Park, vecchio mio… — disse.
— Enne O — sibilai.
— Sei l’unico qui dentro che può fare questo servizio — mi disse. — Si tratta dei Franklin.
— Non dirmi che sono andati a fuoco i Grandi Magazzini Franklin con un milione di clienti…
— No, no! Ha telefonato Bruce Montgomery. Ci sarà una conferenza stampa alle nove.
Bruce Montgomery era il presidente dei Magazzini.
— Questo è un lavoro per Dow.
— È appena andato all’aeroporto.
Mi arresi. Gavin sembrava sul punto di piangere, e io detesto vedere il caposervizio della cronaca locale in lacrime.
— Ok, ci vado — dissi. — Di che si tratta?
— Non so — disse Gavin. — L’ho chiesto a Bruce, ma non ha rivelato niente. Qualcosa di importante, comunque. L’ultima volta che tennero una conferenza stampa, quindici anni fa, lo fecero per annunciare che Montgomery rilevava l’azienda. Per la prima volta, un estraneo aveva il posto di comando. Fino ad allora era stata sempre amministrata e diretta dalla famiglia.
— Va bene — dissi. — Ci penso io. Gavin tornò al suo posto.
Chiamai un fattorino e lo mandai in archivio a prendere i ritagli che riguardavano i Magazzini Franklin negli ultimi cinque anni. Li estrassi dalla busta e li scorsi. C’era ben poco che non mi fosse già noto, e niente di importante. Articoli sulle sfilate di moda e sulle mostre d’arte organizzate all’interno, e sulle partecipazioni del personale dei Magazzini a iniziative civiche.
I Franklin costituivano una specie di antica tradizione, di cui si era celebrato proprio l’anno prima il centenario di fondazione. Il loro nome era di casa quasi dal giorno della nascita della città stessa. Era diventata, e ancora era, un’istituzione familiare, con precetti instillati con quella premura che è possibile solo all’interno di un’istituzione familiare. Generazioni di cittadini erano cresciute con i Franklin, facendovi i loro acquisti dall’età della culla alla tomba. Era il simbolo stesso della cortesia e della qualità.
Joy Kane mi passò davanti.
— Ciao, bella — le dissi. — Di che ci occupiamo stamane?
— Puzzole — rispose.
— I visoni sarebbero più in stile con te.
Si fermò accanto a me. Riuscivo a percepire leggeri effluvi del profumo che si era data, e soprattutto godevo della presenza della sua bellezza. Allungò una mano e mi scompigliò i capelli; un gesto improvviso, impulsivo, dopodiché si ricompose.
— Puzzole domestiche — riprese. — Sono l’ultima novità. Deodorizzate, naturalmente.
— Naturalmente — dissi. E intanto pensavo: dei peluche con l’idrofobia.
— Me l’ero presa, quando Gavin mi aveva mandata laggiù.
— Dove, nei boschi?
— No, all’allevamento.
— Vuoi dire che allevano le puzzole come se fossero polli?
— Certo. Ti ho detto che si tratta di puzzole da compagnia. Secondo lui, sono destinate ad avere un successone: sono pulite, simpatiche e divertenti. Gli piovono ordini da tutte le parti, dai negozi di animali di New York, Chicago e un sacco di altre città.
— Immagino che abbia fatto delle foto.
— È venuto con me Ben, ne ha scattate molte.
— Da dove prende le puzzole quell’uomo?
— Te l’ho detto, le alleva.
— Voglio dire, la prima volta dove le ha prese?
— Le hanno prese con le trappole i ragazzi delle fattorie. Quel tale paga bene per gli animali selvatici. Sta mettendo su un bel giro d’affari. Ma ha bisogno di molti animali da riproduzione, e compra tutti quelli che gli portano.
— Questo mi ricorda che oggi è giorno di paga — le dissi. — Mi aiuti a spenderla?