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Ecco ancora, fra una capanna e l’altra, all’angolo del cortile, il sedile di pietra addossato al muro ove zia Pottoi aveva veduto donna Maria Cristina corteggiata come una Barona da tutte le vassalle che si recavano in pellegrinaggio alla chiesa.

Adesso donna Ester e donna Ruth sedevano umili e nere come due monache col fazzoletto bianco in testa e le mani sotto il grembiale, pensando a Noemi lontana, a Giacinto lontano.

La loro cena era stata frugale: una zuppa di latte che non gonfiava lo stomaco e lasciava il pensiero lucido e puro come quel gran cielo di primavera. Eppure, di tanto in tanto, donna Ester aveva come un brivido di rimorso, un pensiero segreto quasi colpevole. Giacintino… la lettera scritta di nascosto… Accanto a loro, seduta per terra con le spalle al muro e le braccia intorno alle ginocchia, Grixenda rideva guardando il ragazzo che suonava la fisarmonica. Nella capanna attigua le parenti con cui ella era venuta alla festa cenavano sedute per terra attorno ad una «bertula» (3) stesa come tovaglia, e mentre una di esse cullava un bambino che s’addormentava agitando le manine molli, l’altra chiamava la fanciulla.

«Grixenda, fiore, vieni, prendi almeno un pezzo di focaccia! Cosa dirà tua nonna? Che t’abbiamo lasciato morir di fame?»

«Grixenda, non senti che ti chiamano? Obbedisci», disse donna Ester.

«Ah, donna Ester mia! Non ho fame… che di ballare!»

«Zuannantò! Vieni a mangiare! Non vedi che il tuo suono è come il vento? Fa scappar la gente.»

«Aspetta che le otri siano piene e vedrai!», disse l’usuraia, uscendo sulla porticina a destra delle dame Pintor e pulendosi i denti con l’unghia.

Anche lei aveva finito di cenare e per non perder tempo si mise a filare al chiarore del fuoco.

Allora fra lei, le dame, la ragazza e le donne dentro cominciò la solita conversazione: come al paese durante tutto l’anno parlavano della festa, ora alla festa parlavano del paese.

«Io non so come avete fatto a lasciar la casa sola, comare Kallì; come?», disse una ragazza alta che portava sotto il grembiale un vaso di latte cagliato, dono del prete alle dame Pintor.

«Natòlia, cuoricino mio! Io non ho lasciato in casa i tesori che ha lasciato in casa il tuo padrone il Rettore!»

«Corfu è mazza a conca!» (4) E allora datemi la chiave. Vado e frugo, in casa vostra, eppoi scappo nelle grandi città!»

«Tu credi che nelle grandi città si stia bene?», domandò donna Ruth con voce grave, e donna Ester che aveva vuotato il vaso del latte e lo restituiva a Natòlia con dentro mezza «pezza» di mancia, si fece il segno della croce:

«Libera nos Domine».

Entrambe pensavano alla stessa cosa, alla fuga di Lia, all’arrivo di Giacinto, e con sorpresa sentirono Grixenda mormorare:

«Ma se quelli che stanno nelle grandi città vogliono venir qui!».

La gente cominciava ad uscir nel cortile; sulle porticine apparivan le donne che si pulivan la bocca col grembiale e poi rincorrevano i bambini per prenderli e metterli a dormire.

Una delle parenti di Grixenda andò dal suonatore di fisarmonica e gli porse una focaccia piegata in quattro.

«E mangia, gioiello! Cosa dirà tua nonna? Che non ti do da mangiare?»

Il ragazzo sporse il viso, strappò un boccone dalla focaccia e continuò a suonare.

Ma nessuno si decideva a cominciare il ballo tanto che Grixenda e Natòlia, irritate per l’indifferenza delle donne, dissero qualche insolenza.

«Si sa! Se non ci sono maschi non vi divertite!»

«Ci fosse almeno Efix il servo di donna Ruth. Anche quello vi basterebbe!»

«È vecchio come le pietre! Che me ne faccio di Efix? Meglio ballo con un ramo di lentischio!»

Ma d’un tratto il cane del prete, dopo aver abbaiato sul belvedere, corse giù urlando fuori del cortile e le donne smisero d’insolentirsi per andare a vedere. Due uomini salivano dallo stradone, e mentre uno stava seduto su un piccolo cammello, l’altro si piegava su una grande cavalletta le cui ali parevano mandassero giù e su i lunghi piedi del cavaliere. Il chiarore del fuoco, a misura che i due salivano, illuminava però le loro figure misteriose; e la prima era quella di Efix su un cavallo gobbo di bisacce e di guanciali, e l’altra quella di uno straniero la cui bicicletta scintillò rossa attraversando di volo il cortile.

Grixenda balzò in piedi appoggiandosi al muro tanto era turbata; anche la fisarmonica cessò di suonare.

«Donna Ester mia! Suo nipote.»

Le dame s’alzarono tremando e donna Ester parlò con una vocina che pareva il belato d’un capretto.

«Giacintino!… Giacintino!… Nipote mio… Ma non è una visione? Sei tu?…»

Egli era smontato davanti a loro e si guardava attorno confuso: sentì le sue mani prese dalle mani secche della zia, e sullo sfondo nero del muro vide il viso pallido e gli occhi di perla di Grixenda.

Poi tutte le donne gli furono attorno, guardandolo, toccandolo, interrogandolo: il calore dei loro corpi parve eccitarlo; sorrise, gli sembrò d’esser giunto in mezzo ad una numerosa famiglia, e cominciò ad abbracciare tutti. Qualche donna balzò indietro, qualche altra si mise a ridere sollevando il viso a guardarlo.

«È costume del tuo paese? Donna Ester, donna Ruth, ci ha scambiato con loro! Ci crede tutte sue zie!»

Efix intanto, tirati giù i guanciali, li portò dentro la capanna vuota passando di traverso per la stretta porticina. Grixenda lo aiutò a stenderli sul sedile in muratura, lungo la parete, e fu lei a spazzar la celletta e a preparare il lettuccio, mentre nell’altra capanna si udiva Giacintino rispondere rispettoso e quasi timido alle domande delle zie.

«Sissignora, da Terranova in bicicletta: cos’è poi? Un volo! Con una strada così piana e solitaria si può girare il mondo in un giorno. Sì, la zia Noemi è rimasta, vedendomi: non mi aspettava certo, e forse credeva che avessi sbagliato porta!»

Ogni sua parola e il suo accento straniero colpivano Grixenda al cuore. Ella non aveva ben distinto il viso del giovane arrivato da terre lontane, ma aveva notato la sua alta statura e i capelli folti dorati come il fuoco. E provava già un senso di gelosia perché Natòlia, la serva del prete, s’era cacciata dentro la capanna delle dame e parlava con lui.

Com’era sfacciata, Natòlia! Per piacere allo straniero si beffava persino delle capanne, che dopo tutto erano sacre perché abitate dai fedeli e appartenenti alla chiesa.

«Neanche a Roma ci son palazzi come questi! Guardi che cortine! Le han messe i ragni, gratis, per amor di Dio.»

«E i topi non li conta? Se si sente grattare i piedi, stanotte, non creda che sia io, don Giacì!»

Grixenda si morse le labbra e picchiò sulla parete per far tacere Natòlia.

«Ci sono anche gli spiriti. Li sente?»

«Oh, è una donna che picchia!», disse semplicemente donna Ruth.

«Spiriti, topi e donne per me son la stessa cosa», rispose Giacinto.

E Grixenda, di là, appoggiata alla parete di mezzo, si mise a ridere forte. Ascoltava la voce del giovane come aveva poco prima ascoltato il suono della fisarmonica e rideva per il piacere, eppure in fondo sentiva voglia di piangere.

Del resto tutti erano felici, ma d’una felicità grave, nella vera capanna delle dame.

«Mi pare di sognare», diceva donna Ester, servendo da cenare al nipote, mentre donna Ruth lo guardava fisso con occhi lucidi, ed Efix traeva dalla bisaccia un bariletto di vino, e pur così curvo si volgeva a sorridere ai suoi padroni.

Giacinto mangiava, seduto sul sedile in muratura che serviva a più usi, da tavola e da letto: e credeva anche lui di sognare.

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(3) Bisaccia.

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(4) Colpo di mazza alla testa.