Dopo l’accoglienza fredda di Noemi s’era sentito ciò che veramente era, straniero in mezzo a gente diversa da lui; ma adesso vedeva le zie servirlo premurose, il servo sorridergli come ad un bambino, le fanciulle guardarlo tenere ed avide, – sentiva la cantilena della fisarmonica, intravedeva le ombre danzanti al chiaro del fuoco, e s’immaginava che la sua vita dovesse trascorrere sempre così, fantastica e lieta.
«Adattarsi bisogna», disse Efix versandogli da bere.
«Guarda tu l’acqua: perché dicono che è saggia? Perché prende la forma del vaso ove la si versa.»
«Anche il vino, mi pare!»
«Anche il vino, sì! Solo che il vino qualche volta spumeggia e scappa; l’acqua no.»
«Anche l’acqua, se è messa sul fuoco a bollire», disse Natòlia.
Allora Grixenda corse là dentro, prese per il braccio la serva e la trascinò via con sé.
«Lasciami! Che hai?»
«Perché manchi di rispetto allo straniero!»
«Grixè! Ti ha morsicato la tarantola ché diventi matta?»
«Sì, e perciò voglio ballare.»
Già alcune donne s’eran decise a riunirsi attorno al suonatore, porgendosi la mano per cominciare il ballo. I bottoni dei loro corsetti scintillavano al fuoco, le loro ombre s’incrociavano sul terreno grigiastro. Lentamente si disposero in fila, con le mani intrecciate, e sollevarono i piedi accennando i primi passi della danza; ma erano rigide e incerte e pareva si sostenessero a vicenda.
«Si vede che manca il puntello! Manca l’uomo. Chiamate almeno Efix!», gridò Natòlia, e siccome Grixenda la pizzicava al braccio aggiunse: «Ah, ti punga la vespa! Anche a lui vuoi che si usi rispetto?».
Ma al grido Efix era apparso e si avanzava battendo i piedi in cadenza e agitando le braccia come un vero ballerino. Cantava accompagnandosi:
«A sa festa… a sa festa so andatu»…(5)
Arrivato accanto a Grixenda le prese il braccio, si unì alla fila delle danzatrici e parve davvero animare con la sua presenza il ballo: i piedi delle donne si mossero più agili, riunendosi, strisciando, sollevandosi, i corpi si fecero più molli, i visi brillarono di gioia.
«Ecco il puntello. Forza, coraggio!»
«E su! E su!»
Un filo magico parve allacciare le donne dando loro un’eccitazione composta e ardente. La fila si cominciò a piegare, formando lentamente un circolo: di tanto in tanto una donna s’avanzava, staccava due mani unite, le intrecciava alle sue, accresceva la ghirlanda nera e rossa dietro cui si muoveva la frangia delle ombre. E i piedi si sollevavano sempre più svelti, battendo gli uni sugli altri, percuotendo la terra come per svegliarla dalla sua immobilità.
«E su! E su!»
Anche la fisarmonica suonava più lieta ed agile. Grida di gioia echeggiarono, quasi selvagge, come per domandare al motivo del ballo una intonazione più animata e più voluttuosa.
«Uhì! Uhiahi!»
Tutti eran corsi a vedere, e là in fondo nell’angolo del cortile Grixenda distinse i capelli dorati di Giacinto fra i due fazzoletti bianchi delle zie.
«Compare Efix, fate ballare il vostro figlioccio!», disse Natòlia.
«Quello è un puntello, sì!»
«Mettilo accanto alla chiesa e ti sembrerà il campanile.»
«E sta’ zitta, Natòlia, lingua di fuoco.»
«Parlano più i tuoi occhi che la mia lingua, Grixè.»
«Il fuoco ti mangi le palpebre!»
«E state zitte, donne, e ballate.»
«A sa festa… a sa festa so andatu»…
«Uhì! Uhiahi!…»
Il grido tremolava come un nitrito, e le gambe delle donne, disegnate dalle gonne scure, e i piedi corti emergenti dall’ondulare dell’orlo rosso si movevan sempre più agili scaldati dal piacere del ballo.
«Don Giacinto! Venga!»
«E su! E su!»
«E venga! E venga!»
Tutte le donne guardavano laggiù sorridendo. I denti brillavano agli angoli delle loro bocche.
Egli balzò, quasi sfuggendo alla prigionia delle due vecchie dame; arrivato però in mezzo al cortile si fermò incerto: allora il circolo delle donne si riaprì, si allungò di nuovo in fila, andò incontro allo straniero come nei giuochi infantili, lo accerchiò, lo prese, si richiuse.
Messo in mezzo fra Grixenda e Natòlia, alto, diverso da tutti, egli parve la perla nell’anello della danza; e sentiva la piccola mano di Grixenda abbandonarsi tremando un poco entro la sua, mentre le dita dure e calde di Natòlia s’intrecciavano forte alle sue come fossero amanti.
Anche il prete uscì dalla sua capanna, guardò qua e là, placido e rosso come un bambino ancora calvo, poi andò a sedersi accanto alle dame Pintor.
«Bel ragazzo, suo nipote, donna Ruth!»
Trasse la tabacchiera d’argento, la scosse, l’aprì e la porse nel cavo della mano prima a donna Ester, poi a donna Ruth, infine alla stessa Kallina.
«Bel ragazzo, donna Ester, ma mi raccomando, attenzione.»
Sollevò la sottana per rimettersi in tasca la tabacchiera e ripiegò e arrotolò il suo fazzoletto turchino, sbattendosene le cocche sul petto.
«Donna Ester, attenzione. Del resto anche noi abbiamo ballato quando avevamo ali ai piedi. E adesso che fa, vossignoria?»
Donna Ester piangeva di gioia, ma finse di starnutire.
«Sembra pepe il suo tabacco, prete Paskà!»
Il più felice di tutti era Efix. Sdraiato su un mucchio d’erba, in una delle «muristenes» vuote, gli pareva ancora di ballare e di ammirare Giacinto. E gli sorrideva come gli sorridevan le donne. Ecco, la figura del «ragazzo» aveva già preso nella sua vita il miglior posto come nel circolo della danza.
E riandava col pensiero fino al momento in cui era corso alla casa dei suoi padroni per vedere il figlio di Lia: che momento! Era stata così forte la sua gioia che neppure si rammentava che cosa aveva detto, che cosa aveva fatto. Solo rivedeva la figura fredda eppure inquieta di Noemi seguirlo e dirgli come in segreto:
«Andate, su, andate alla festa… Andate: vi aspettano».
E li aveva mandati via, col viso rischiarato solo all’atto del congedo, su nella cornice del portone che si chiudeva davanti a lei.
Passando sotto il poderetto s’eran fermati un momento; ed Efix aveva additato con tenerezza d’amante la sua collina, il ciglione ove le canne tremavano rosee al tramonto, la capanna appiattata tra il verde ad aspettarlo.
«Io sto qui tutto l’anno. E vossignoria verrà quando ci saran gli ortaggi e le frutta da portare al paese… Ma il suo cavallo non sopporta la bisaccia!», aggiunse socchiudendo gli occhi contro il barbaglio della bicicletta.
«Io me ne vado a Nuoro!», disse Giacintino, pur guardando il podere di sotto in su come si guarda una persona.
«Qualche volta verrà! Prima che faccia troppo caldo, e poi in autunno si sta bene all’ombra, lassù! E di notte? La luna ci fa compagnia come una sposa. E le angurie qua sotto l’orto sembrano allora bocce di cristallo.»
«Sì, qualche volta verrò», promise Giacinto, buttandosi giù dalla macchina svelto come un uccello.
Ed era stato lui, quasi vinto dalle descrizioni del compagno, a proporre di visitare il poderetto.
Ed avevano visitato il poderetto, lasciando giù il cavallo a strappare qualche fronda della siepe del muricciolo.
Efix fece osservare bene al nuovo padroncino le arginature costruite da lui con metodi preistorici: e il giovane guardava con meraviglia i massi accumulati dal piccolo uomo, e poi guardava questi come per misurare meglio la grandiosità della costruzione.
«Tutto da solo? Che forza! Dovevi esser forte, in gioventù!»
«Sì, ero forte! E il sentiero, non l’ho fatto io?»
Il sentiero serpeggiava su, rinforzato anch’esso da muriccie, come da terrapieni eran sostenuti i ciglioni e i rialzi del poderetto: un’opera paziente e solida che ricordava quella degli antichi padri costruttori dei «nuraghes».
(5) Alla festa… Alla festa sono andato…