Выбрать главу

E su, e su, ad ogni scaglione si fermavano e si volgevano a contemplare l’opera del piccolo uomo, e lo straniero aveva curiosità infantili che divertivano il servo.

«Il fiume si gonfia d’inverno?»

«Cos’è questo?», domandava tirando a sé qualche fronda di alberello.

Non conosceva né le piante né le erbe; non sapeva che i fiumi straripano in primavera! Ecco la striscia coltivata a ceci, pallidi già entro le loro bucce puntute: ecco le siepi di gravi pomidoro lungo il solco umido, ecco un campicello che sembra di narcisi ed è di patate, ecco le cipolline tremule alla brezza come asfodeli, ecco i cavoli solcati dai bruchi verdi luminosi. Nugoli di farfalle bianche e giallognole volavano di qua e di là, posandosi, confondendosi coi fiori dei piselli: le cavallette si staccavano e ricadevano come sbattute dal vento, le api ronzavano lungo le muricce come dorate dal polline dei fiori su cui posavano. Una fila di papaveri s’accendeva tra il verde monotono del campo di fave.

E un silenzio grave odoroso scendeva con le ombre dei muricciuoli, e tutto era caldo e pieno d’oblio in quell’angolo di mondo recinto dai fichi d’India come da una muraglia vegetale, tanto che lo straniero, arrivato davanti alla capanna, si buttò, steso sull’erba ed ebbe desiderio di non proseguire il viaggio.

Fra una canna e l’altra sopra la collina le nuvole di maggio passavano bianche e tenere come veli di donna; egli guardava il cielo d’un azzurro struggente e gli pareva d’esser coricato su un bel letto dalle coltri di seta.

Vedeva Efix aprire la capanna, volgersi richiamandolo con un gesto malizioso dell’indice, poi ritornare con qualche cosa nascosta dietro la schiena e inginocchiarsi ammiccando. Sognava?

s’alzò a sedere cingendosi le ginocchia con le braccia e si fece un po’ pregare prima di prendere la zucca arabescata piena di vino giallo che il servo gli porgeva. Infine bevette: era un vino dolce e profumato come l’ambra e a berlo così, dalla bocca stretta della zucca, dava quasi un senso di voluttà.

Efix guardava, inginocchiato come in adorazione: bevette anche lui e sentì voglia di piangere.

Le api si posarono sulla zucca; Giacinto strappò di mezzo alle sue gambe sollevate uno stelo d’avena, e guardando per terra domandò:

«Come vivono le mie zie?».

Era giunto il momento delle confidenze. Efix sporse la zucca di qui e di là, a destra e a sinistra.

«Guardi, vossignoria, fin dove arriva l’occhio la valle era della sua famiglia. Gente forte, era! Adesso non resta che questo poderetto, ma è come il cuore che batte anche nel petto dei vecchi. Si vive di questo,»

«Ma che testa, mio nonno! È stato lui a rovinare la famiglia…»

«Se non era lui, vossignoria non era nato!»

Giacinto sollevò rapido gli occhi, riabbassandoli tosto. Occhi pieni di disperazione.

«E perché nascere?»

«Oh bella, perché Dio vuole così!»

Giacinto non rispose: guardava sempre per terra e le sue palpebre si sbattevano quasi stesse per piangere. Ma bevette di nuovo, docile, chiudendo gli occhi, mentre Efix si lasciava sedere a gambe in croce e si prendeva un piede fra le mani.

«Non è contento d’esser venuto, don Giacintì?»

«Non chiamarmi così», disse allora il giovane. «Io non sono nobile, non sono nulla! Dimmi tu, come te lo dico io. Se sono contento? No. Sono venuto qui perché non sapevo dove andare… Là c’è tanta gente… Là bisogna esser cattivi per far fortuna. Tu non puoi sapere! Ci son tanti ricchi… Ma c’è tanta gente…»

Agitava le dita della mano tesa lontano, come per accennare al brulichio della folla, ed Efix guardava il suo piede e mormorava con tenerezza e con pietà:

«Anima mia bella!».

E avrebbe voluto curvarsi sul desolato «ragazzo» e dirgli: sono qua io, non ti mancherà nulla! – ma non seppe che offrirgli di nuovo la zucca come la madre offre il seno al bambino che si lamenta.

«Lo sappiamo, sì, che diavolo di mondo è quello! Ma qui è diverso: si può anche far fortuna. Le racconterò come ha fatto il Milese… Un giorno arrivò come un uccello che non ha nido…»

Ma Giacinto ascoltava desolato a testa bassa, torcendo un poco la bocca con disgusto, e d’improvviso si buttò col gomito appoggiato sull’erba e il viso alla mano, masticando con rabbia l’avena.

«Se sapessi, tu! Ma che puoi sapere, tu? c’è a Roma un principe che possiede terre quanto tutta la Sardegna, e un altro, uno che s’è fatto grande da sé, che quando succede qualche disastro nazionale offre denari più del re.»

«Anche in Sardegna c’è un frate che ha trecento scudi di rendita al giorno», disse Efix umiliato, ma poi alzò la voce: «Dico trecento scudi, intende, vossignoria?».

Vossignoria non parve sorpreso. Ma dopo un momento domandò:

«Dov’è? Si può conoscere?».

«Sta a Calangianus, in Gallura.»

«Troppo lontano.» E Giacinto, con gli occhi distratti, riprese a narrare delle favolose ricchezze dei Signori del Continente, dei loro vizi e delle loro dissipazioni.

«E son gente contenta?», domandò Efix, quasi irritato.

«E noi siamo gente contenta?»

«Io sì, vossignoria! Beva, beva e si faccia coraggio!»

Giacinto bevette ed Efix scosse poi le ultime gocce sull’erba: le api vi si posarono e tutt’intorno fu un ronzio di dolcezza.

Ma dopo l’arrivo al Rimedio il ragazzo pareva contento.

Aveva abbracciato le zie e le altre donne, aveva mangiato bene e ballato come un pastore alla festa. Adesso dormiva e russava, ed Efix l’aveva veduto poco prima sul lettuccio lungo il muro, con le palpebre chiuse così delicate, che pareva vi trasparisse l’azzurro degli occhi, coi capelli rossicci sul bianco del guanciale e i pugni chiusi come un bambino che sogna. Aveva dimenticato per terra il lume acceso. Efix si curvo a spegnerlo pensando che i Pintor erano tutti così; incuranti dell’economia e del pericolo!

Ebbene, forse meglio così nella vita! Anche lui si volse supino e chiuse i pugni: attraverso i buchi del tetto oscillavan le stelle e il loro tremolìo e l’incessante tremolìo dei grilli parevano la stessa cosa.

Si sentiva l’odore degli ontani e del puleggio; tutto era caduto in un silenzio tremulo come dentro un’acqua corrente. Ed Efix ricordava le sere lontane, il ballo, i canti notturni, donna Lia seduta sulla pietra all’angolo del cortile, piegata su se stessa come una giovine prigioniera che rode i lacci e piano piano si prepara alla fuga.

Capitolo quinto

L’indomani all’alba Efix riportò il cavallo in paese e raccontò alla padrona giovine il divertimento della sera prima. Noemi sembrava tranquilla: solo, quando egli ripartì per il poderetto, corse al portone raccomandandogli di tornare fra tre giorni per portare provviste alle sorelle.

Dopo tre giorni Efix tornò e per non pagare il nolo del cavallo si caricò sulle spalle la bisaccia e s’avviò a piedi.

Il tempo s’era rinfrescato: dai monti del Nuorese scendeva il venticello dei boschi e correva correva sulle erbe lungo il fiume e pareva volesse scendere con questo al mare.

Efix sostò al poderetto, presso l’ontano al limite sabbioso del campo delle angurie, e guardando i tralci carnosi che correvano avviluppandosi qua e là come serpi sotto le foglie, gli pareva che avessero, come del resto tutti i cespugli tremuli intorno, qualche cosa di vivo, di animale. E parlava loro come lo intendessero, raccomandando loro di non stroncarsi, di non seccarsi, di crescere bene e dar molto frutto come era loro dovere; ma un rumore nella strada richiamò la sua attenzione.

Don Predu, fiero e pesante sul suo cavallo nero grasso, passava dietro la siepe. Cosa insolita, vedendo Efix si fermò.

«E che facciamo, con questa bisaccia? Sei stato a rubar fave?»

Efix s’alzò, rispettoso.

«Son le provviste per le mie dame. E lei dove va?»