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Anche don Predu andava laggiù. Dalla sua bisaccia a fiorami usciva l’odore del «gattò» che portava in regalo al Rettore suo amico, e il collo violetto di una damigiana di vino.

«E tu vai a piedi, babbeo? Anche il cavallo ti fanno fare, adesso? Dammi la bisaccia, te la porto. Non scappo, no! Se vuoi esser più sicuro monta su in groppa anche tu, babbeo!»

Sbalordito, dopo essersi un po’ fatto pregare e minacciare, Efix caricò la bisaccia sul cavallo che pareva si fosse addormentato, poi montò in groppa alle spalle di don Predu cercando di farsi leggero.

«Adesso suderà, sì, il cavallo di vossignoria!»

«Così il diavolo mi aiuti, è il cavallo più forte del Circondario; puoi caricargli su un monte, lo porta. Vedi, va come non avesse neanche sella. E dimmi, tu, cosa è venuto a frugare qui quel vagabondo di mio nipote?»

Efix gli fece una smorfia alle spalle. Ah, ecco perché l’aveva preso!

«Perché, vagabondo? Era impiegato.»

«Che impiego aveva? Contava le ore?»

«Un buon impiego, invece! Nella Dogana. Ma, certo, per vivere in quei posti ci vuole molto denaro. Ci son signori che hanno terre quanto è grande la Sardegna e uno fa elemosine più del re.»

Don Predu si gonfiò tutto dal ridere: una risata silenziosa, feroce.

«Ah, ecco, ci siamo! Ecco che hai già la testa piena di vento!»

«Perché parla così, don Predu?», disse Efix con dignità. «Il ragazzo è sincero, buono: non ha vizi, non fuma, non beve, non ama le donne. Avrà fortuna. Se vuole ha subito un posto a Nuoro. Eppoi ha anche denari alla Banca.»

«Tu li hai contati, babbeo? Ah, Efix, in fede mia, a te danno da mangiare fandonie, invece di pane. Dimmi, quanto ti devono adesso le tue nobili padrone?»

«Nulla mi devono. Io devo tutto a loro.»

«Zitto, se no ti scaravento dentro il fiume. Senti, adesso continuerete a far debiti, per mantenere il ragazzo: prenderete denari da Kallina, il demonio l’affondi. Venderete il podere. Ricordati che lo voglio io. Se non mi avverti a tempo, se farete come altre volte che invece di vendere a me per il prezzo giusto avete venduto a metà agli altri, bada, ti avverto, Efisè, ti taglio le canne della gola. Sei avvertito.»

L’uomo, dietro, ansava, oppresso da un peso ben più grave della bisaccia di cui don Predu aveva voluto liberarlo.

«Dio, Signore! Perché parla così, don Predu? Come un nemico delle sue povere cugine?»

«Al diavolo le cugine e la loro testa piena di vento! Son loro che mi han trattato sempre da nemico. E nemico sia. Ma tu ricordati, Efix: il poderetto lo voglio io…»

Il martirio durò tutta la strada, finché Efix, stanco più che avesse viaggiato a piedi, scivolò dalla groppa del cavallo e tirò giù la bisaccia.

Entrando nel recinto rivide la solita scena: le sue dame sedevano sulla panchina con le mani in grembo, Kallina filava, coi piedi nudi entro le scarpette a nastri; nell’interno delle capanne le donne sedute per terra bevevano il caffè, cullavano i bimbi, e sull’alto del belvedere, sullo sfondo del cielo dorato, la figura nera di prete Paskale salutava col fazzoletto turchino.

«Si divertono?», domandò Efix, deponendo la bisaccia ai piedi delle sue padrone. «E lui?»

«Balliamo sempre», disse donna Ester, e donna Ruth si alzò per riporre la roba.

Di Giacinto parlò commossa l’usuraia.

«Che giovane affabile! Di poche parole, ma buono come il miele. Si diverte come un bambino e viene qui a mangiare il mio pane d’orzo. Eccolo che adesso ritorna con Grixenda dalla fontana.»

Si vedevano infatti in lontananza, tra il verde delle macchie, lui alto e verdognolo, lei piccola e nera, tutti e due con in mano le secchie scintillanti che di tanto in tanto si toccavano e di cui l’acqua, traboccando, si mischiava e sgocciolava. E i due pareva provassero piacere a quel contatto perché guardavano le secchie a testa bassa e ridevano.

Efix ebbe un presentimento. Andò su dal prete a portargli un cestino di biscotti, regalo di una paesana, e vide di lassù don Predu, indugiatosi ad abbeverare il cavallo alla fontana, raggiungere Giacinto e Grixenda e curvarsi a dir loro qualche cosa. Tutti e tre ridevano, la fanciulla a testa bassa, Giacinto toccando il collo del cavallo.

«Efix», disse il prete, sbattendosi il fazzoletto sul petto per togliervi il tabacco, «ecco don Predu. Meno male, avremo un po’ di maldicenza. E il vostro Giacinto è un bravo ragazzo; viene a messa e alla novena. Ben educato, affabile. Ma mi raccomando, attenzione!»

Le serve del prete corsero fuori per aiutare don Predu a scaricar le bisacce, mentre le altre donne affacciavano i visi pallidi alle porticine e il cane, dopo aver un po’ abbaiato, si slanciava alto davanti al cavallo quasi volesse baciarlo.

«Piano, donne!», disse don Predu. «c’è dentro le bisacce qualche cosa che si rompe a toccarla, come voi…»

«La tocchi la saetta, don Predu!», imprecò Natòlia, pur guardandolo con occhi languidi per tentarne la conquista.

Ah, se le riusciva! Si sarebbe così vendicata di Grixenda, che si era preso tutto per sé lo straniero.

Grixenda a sua volta sembrava eccitata per l’arrivo di don Predu.

«Quello, vede», disse sottovoce a Giacinto, mentre attraversavano il cortile, «quello, suo zio, è un uomo che si diverte e spende, nelle feste. Non sta melanconico come lei! Cento lire ha, cento lire butta, così!»

Prese un po’ d’acqua con le dita, e gliela buttò sul viso, senza ch’egli cessasse di sorridere con gli occhi dolci pieni di desiderio, mostrandole fra le labbra rosee i denti bianchi quasi volesse morderla.

«Che cosa son cento lire? Io ne ho spese mille in una notte e non mi sono divertito…»

Grixenda depose la secchia sul sedile, e si gettò sopra il bambino che le sorrideva dal giaciglio agitando le gambine in aria e tentando di afferrarsele con le manine sporche: gli baciò le cosce, affondando le labbra nella carne tenera ove i solchi segnavano striscioline rosee e viola; lo sollevò in alto, lo riabbassò fino a terra, lo sollevò ancora, lo fece ridere, lo portò fuori stringendoselo forte al petto.

Fuori Giacinto s’era messo a sedere a gambe aperte, e vi dondolava in mezzo le mani, ascoltando Kallina che lo invitava a mangiare con lei le fave cotte col latte: parlavano piano, come di cosa grave, ma donna Ruth si affacciò alla porticina con in mano una coscia d’agnello bianca di grasso col rognone violetto coperto dal velo, e interruppe il colloquio.

«Bisogna chiamar Efix perché faccia uno spiedo di legno: Giacintino, va’!»

Grixenda corse lei a chiamare il servo, gli si fregò addosso come una gattina, gli diede da baciare il bambino.

«Come sono contenta, zio Efix! Stanotte balleremo ancora! Ma guardate il vostro padroncino: pare faccia la corte a Kallina!»

Efix la guardava con tenerezza; vide Giacinto sollevar gli occhi pieni d’amore e di desiderio, e in cuor suo benedisse i due giovani. Sì, divertitevi, amatevi: alla festa si va per questo e la festa passa presto…

Seduto all’ombra del muro cominciò a intagliare lo spiedo: le donne ridevano intorno a lui, Giacinto come sempre taceva e pareva intento alla voce della fisarmonica che riempiva di lamenti e di grida il cortile. Ma arrivò Natòlia, dondolando i fianchi.

«Il mio padrone e don Predu invitano don Giacintino a pranzo.»

Ed egli si alzò, dopo aver sbattuto bene l’orlo dei calzoni. Donna Ester lo seguì con gli occhi e guardò a lungo verso il belvedere, come affascinata dal luccichio dei bicchieri e del vassoio d’argento che Natòlia agitava lassù come uno specchio; l’idea che il cugino ricco facesse caso del nipote povero bastava per renderla felice.

Le donne lodavano Giacinto, e l’usuraia traendo il filo fra il pollice e l’indice e girando il fuso sul ginocchio diceva con dolcezza insolita:

«Un ragazzo così docile non l’avevo mai conosciuto. E bello, poi! Rassomiglia al Barone antico…».

«A chi? Al Barone morto che vive ancora nel castello?»