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Ma donna Ruth si mise l’unghia dell’indice sulla bocca: non bisognava parlar di morti, alla festa.

«Altro che spirito: è vivo e ha le mani che si muovono, non è vero, Grixè? Chi? Don Giacintino!»

Ma Grixenda, appoggiata al muro, col bimbo che le morsicava i bottoni della camicia, guardava anche lei il vassoio luccicante su nel belvedere, e i suoi occhi parevano affascinati come quelli della vecchia nonna quando nelle notti di luna spiavano il passaggio dei folletti giù verso il fiume.

Efix tornò ancora tre giorni dopo. Questa volta non era solo: quasi tutti quelli del paese scendevano alla festa, e le donne portavano sul capo vassoi con torte e cestini pieni di galline legate con nastri rossi.

Gli alberelli intorno erano carichi di frutti acerbi e la festa pareva si stendesse per tutta la valle.

Arrivando, Efix trovò il recinto intorno alle capanne già ingombro di carri con tende formate da sacchi e da lenzuola, e i rivenditori di dolci e di vino dritti accanto ai loro piccoli banchi all’ombra della chiesa.

Una fila di mendicanti vigilava il sentiero e le loro figure accovacciate, terree e turchine, alcune con orribili occhi bianchi, altre con piaghe rosse e tumori violacei, coi petti nudi come scorticati, con le braccia e le dita brancicanti nerastre come ramicelli bruciati, si disegnavano fra un cespuglio e l’altro sulla linea azzurrognola e lattea dell’orizzonte. Ma al di là l’occhio spaziava sul verde, e i gruppi dei cavalli e dei puledri rendevano più grandioso il paesaggio.

Il suono della fisarmonica arrivava fin laggiù; il motivo saltellante e voluttuoso richiamava alla danza, ma a volte si mutava in lamento, come stanco di gioia, come rimpiangendo il piacere che passa e gemendo per l’inutilità di tutte le cose: allora anche l’occhio melanconico delle giumente pareva pieno di una dolcezza nostalgica.

Efix si fermò un momento in mezzo a un gruppo di paesani del Nuorese: le donne sedevano in fila davanti alle capanne, aspettando l’ora della messa cantata, e i loro corsetti di scarlatto davano un tono rosso all’ombra del muro.

Ma la messa tardava. Su nel belvedere i preti ridevano e il vassoio di Natòlia passava e ripassava scintillando fra l’azzurro e il nero.

Efix trovò la capanna deserta: le padrone erano in chiesa ed egli andò a cercarle, ma si trovò preso in mezzo fra don Predu, il Milese e Giacinto, davanti a un rivenditore di vino, e vide tre bicchieri gialli intorno al suo viso.

«Bevi, babbeo!»

«Per me è presto.»

«Non è mai presto per un uomo sano. O sei malato?»

Don Predu gli batté così forte alle spalle che egli balzò avanti e il vino traboccò dai bicchieri e gli si versò addosso. Sia tutto per l’amor di Dio! Egli si asciugò le vesti con la mano e bevette; e con sorpresa e soddisfazione vide Giacinto trarre il portafogli e porgere al rivenditore un biglietto da cinquanta lire. Dio sia lodato, vuol dire che il ragazzo aveva denari davvero.

Del resto fu tutta una giornata di gioia: gioia composta e quasi melanconica nelle donne, verso le quali gli uomini, divertendosi rumorosamente fra loro, dimostravano una certa noncuranza.

Tutto il giorno la fisarmonica suonò accompagnata dai gridi dei rivenditori, dall’urlo dei giocatori di morra, dai canti corali o dai versi dei poeti estemporanei.

Raccolti entro una capanna, seduti per terra a gambe in croce intorno a una damigiana verso cui si volgevano come a un idolo, i poeti improvvisavano ottave pro e contro la guerra di Libia: eran parecchi e si davano il turno, e intorno a loro si accalcavano uomini e ragazzi: di tanto in tanto qualcuno si curvava per prendere di terra un bicchiere di vino.

«Bibe, diauu!»

«Salute!»

«Che possiamo conoscerla cento anni di seguito, questa festa, sani e allegri.»

«Bibe», forca!»

Il poeta Serafino Masala di Bultei, col profilo greco e vestito come un eroe di Omero, cantava:

«Su turcu non si cheret reduire,

Anzis pro gherrare est animosu,

s’arabu inferocidu est coraggiosu,

Si parat prontu né cheret fuire»… (6)

I bicchieri passavano da una mano all’altra; qualche donna s’affacciava timidamente alla porta.

E Gregorio Giordano di Dualchi, bel giovane rosso vestito come un trovatore, si lisciava i lunghi capelli con tutte e due le mani, se li tirava sul collo, e cantava quasi singhiozzando come una prèfica:

«Basta, non poto pius relatare,

Discurro su chi poto insa memoria,

Chi àppana in dogni passu sa vittoria.

De poder tottu l’Africa acquistare;

Tranquillos e sanos a torrare,

Los assistansos Santos de sa Gloria,

E cun bona memoria e vertude

Torren a dom’issoro chin salude!» (7)

Applausi e risate risuonavano; tutti ridevano ma erano commossi.

All’ombra della chiesa Efix invece sentiva altri gruppi di paesani parlare dell’America e degli emigranti.

«l’America? Chi non l’assaggia non sa cosa è. La vedi da lontano e ti sembra un agnello da tosare: ci vai vicino e ti morsica come un cane.»

«Sì, fratelli cari, io ci andai con la bisaccia a metà piena e credevo di riportarla colma; la riportai vuota!»

Un Baroniese smilzo alto e nero come un arabo, invitò Efix a bere e gli raccontò episodi della guerra, di cui era reduce.

«Sì», diceva, guardandosi le mani, «ho strappato il ciuffo ad un «Sirdusso», uno che adorava il diavolo. Io avevo fatto voto di prenderglielo, il ciuffo; di prenderlo intero, con la pelle e con tutto. E così lo presi, che possiate vedermi cieco, se mentisco! Lo portai al mio capitano, tenendolo come un grappolo; sgocciolava sangue nero come acini d’uva nera. Il capitano mi disse: bravo, Conzinu!»

Efix ascoltava, con in mano una rosellina di macchia. Si fece il segno della croce con lo stelo del fiore, e disse:

«Ti confesserai, Conzì! Hai ucciso un uomo!».

«Nella guerra non è peccato. È forse di nascosto? No.»

Allora cominciarono a discutere, ed Efix guardava la rosellina come parlando a lei sola.

«Ad uccidere tocca a Dio.»

Ma dovette interrompere la discussione perché da lontano donna Ester gli accennava di avvicinarsi. Era l’ora del pasto; Giacinto era invitato dal prete e tutti, chi più chi meno, mangiavano in buona compagnia. Dalle capanne uscivan nuvole di fumo odoroso d’arrosto.

L’angolo più tranquillo era quello delle dame. Sedute nella loro capanna mangiavano con Efix l’arrosto di agnello e parlavano di Noemi lontana e di Giacinto, del prete e del Milese, sorridendo senza malizia.

«I primi giorni», disse donna Ruth. tagliando una piccola torta in tre porzioni eguali, «Giacinto parlava sempre d’andarsene a Nuoro, ove diceva d’aver un posto nel molino. Adesso, da due giorni non ne parla più.»

«Ma è che da due giorni non si vede quasi più; e sempre con Predu e con altri compagni.»

«Lasciamolo divertire», disse Efix.

Fuor dalla porta si vedeva Kallina seduta, insolitamente oziosa sulla sua pietra, e Grixenda col bambino in grembo, pallida e triste fissava il belvedere del prete.

Ah, Giacinto si divertiva lassù, dimentico di lei: e a lei pareva di star accovacciata sul limite di un deserto, davanti a un miraggio.

Efix uscì e le disse:

«Perché non ti diverti?»:

Ella accomodò sulla cuffietta del bimbo il nastrino giallo contro il malocchio, e gli occhi le si riempivano di lagrime.

«Per me è finito tutto!»

Dalle capanne le parenti la chiamavano:

«Grixenda, vieni! Che dirà tua nonna vedendoti così magra? Che non ti diamo da mangiare?».

«Eh, bocconi soli ci vogliono», disse Kallina a Efix, dopo averlo chiamato ammiccando. «Vieni, Efix, bevi un bicchiere di vernaccia. Sai chi me l’ha regalata? Il tuo padroncino. Buono come il pane, e affabile: ma senti, bisogna dirgli che Grixenda non è adatta per lui!»

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(6)

Il turco non vuole arrendersi, Anzi per combattere è animoso, l’arabo inferocito è coraggioso, Si slancia pronto né vuole fuggire
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(7)

Basta, non posso più raccontare, Discorro, quel che posso a memoria; Che abbiano (gl’Italiani) in ogni passo la vittoria, Da poter tutta l’Africa conquistare; Tranquilli e sani possano tornare, Li assistano i Santi della Gloria, E con buona memoria e virtù Tornino a casa loro con salute!