Quando ella incominciava a divagare così non la finiva mai, ed Efix che lo sapeva la mandò via infastidito.
«Andate in pace! Cercate anche voi un uomo con un buon pungolo, per nipote vostra!»
E la vecchia contenta di sapere che il ragazzo una sera alla festa aveva detto: «la sposerò» andò via senz’altro. Efix rimase solo in faccia alla luna rossa che saliva tra i vapori cinerei della sera, ma si sentiva inquieto: nel sopore in cui tutta la valle era immersa, il mormorio dell’acqua gli pareva il ronzio della febbre, e che i grilli stessi col loro canto si lamentassero senza tregua.
No, la vita che Giacinto conduceva non era quella di un giovane onesto e timorato di Dio: giorno per giorno le grandi speranze fondate su lui cadevano lasciando posto a vere inquietudini. Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il pozzo più profondo, pensava Efix, ad attingervi troppo si secca.
Qualche sera Giacinto scendeva al poderetto per portare in paese le frutta e gli ortaggi che le zie poi vendevano a casa di nascosto come roba rubata, poiché non è da donne nobili far le erbivendole, e tutto questo era quanto di più utile egli faceva: il resto del tempo lo passava oziando di qua e di là per il paese. Ma eccolo che vien su per il sentiero trascinandosi a fianco come un cane la bicicletta polverosa: arriva ansante quasi venga dall’altro capo del mondo e dopo aver gettato da lontano un involto al servo si butta per terra lungo disteso come morto.
E di un morto aveva il viso pallido, le labbra grigie; ma un tremito gli agitava la spalla sinistra, tanto che Efix spaventato trasse di tasca un tubetto di vetro, fece cadere sulla palma della mano due pastiglie di chinino e gliele mise in bocca.
«Mandale giù. Hai la febbre!»
Giacinto ingoiò le pastiglie e senza sollevarsi si strinse la testa fra le mani.
«Come sono stanco, Efix! Sì, ho la febbre: l’ho presa, sì! Come si fa a non prenderla, in questo maledetto paese? Che paese!», aggiunse come parlando fra sé, stanco. «Si muore: si muore…»
«Alzati», disse Efix, curvo su lui. «Non star lì: l’aria della sera fa male.»
«Lasciami crepare, Efix! Lasciami! Che caldo! Non ho mai conosciuto un caldo simile: almeno da noi si facevano i bagni…»
Che dirgli, per confortarlo? «Perché non sei rimasto «là»?» Efix sentiva troppa pietà di tanta miseria prostrata davanti a lui, per parlare così.
«Che hai fatto oggi?», domandò sottovoce.
«E cosa vuoi che faccia? Non ce niente da fare! Scender qui a portarti il pane, tornar là a portare l’erba! E «loro» che vivono come tre mummie! Zia Noemi oggi però s’e inquietata un poco, perché zia Ester mi diceva che non riesce a metter su i denari per l’imposta. Si capisce! Spendono per me, e da me non vogliono niente! Io dissi a zia Ester: non preoccupatevi, andrò io dall’esattore. – Una furia, zia Noemi! Aveva gli occhi come un gatto arrabbiato. Non la credevo così collerica. Ebbene, mi disse persino: coi tuoi denari, se ne hai, compra un’altra fisarmonica a Grixenda. Che male c’è, Efix, s’io vado da quella ragazza? Dove si va, se no? Zio Pietro mi porta alla bettola, e a me non piace il vino, lo sai; il Milese vuole che io giochi (così s’è fatto la fortuna, lui!) ed a me non piace giocare. Vado là, dalla ragazza, perché è buona, e la vecchia dice cose divertenti. Che male c’è, dimmi. Dimmi?»
Lo guardava di sotto in su, supplichevole, con gli occhi dolci lucidi alla luna. Efix aveva preso l’involto del pane, ma non poteva mangiare; sentiva la gola stretta da un’angoscia profonda.
«Nessun male! Ma la ragazza, benché buona, è povera e non è degna di te.»
«l’amore non conosce né povertà né nobiltà. Quanti signori non han sposato ragazze povere? Che ne sai tu? Più di un lord inglese, più di un milionario d’America han sposato serve, maestre, cantanti… perché? Perché amavano. E quelli son ricchi: sono i re del petrolio, del rame, delle conserve! Chi sono io, al loro confronto? E le donne? Le principesse russe, le americane, chi sposano? Non s’innamorano di poveri artisti e persino dei loro cocchieri e dei loro servi? Ma tu che cosa puoi sapere?»
Efix stringeva fra le mani un pezzo di pane e gli sembrava di stringere il suo cuore tormentato dai ricordi.
«Eppoi dicono di credere in Dio, loro! Perché non mi lasciano sposare la donna che amo?»
«Taci, Giacinto! Non parlare così di loro! Esse vogliono il tuo bene.»
«Allora mi lascino formare la mia famiglia. Io, magari, porterò Grixenda in casa loro ed essa le aiuterà. Ormai esse sono vecchie. Io lavorerò. Andrò a Nuoro, comprerò formaggio, bestiame, lana, vino, persino legna, sì: perché adesso, con la guerra, tutto ha valore. Andrò a Roma e offrirò la merce al Ministero della Guerra. Sai quanto c’è da guadagnare?»
«Ma! E i capitali?»
«Non ci pensare, li ho. Basta mi lascino in pace, «loro». Io non sono venuto per sfruttarle né per vivere alle loro spalle. Ah, ma zia Noemi è terribile!», egli gemette a un tratto, nascondendosi il viso fra le mani. «Ah, Efix, sono così amareggiato! Eppoi mi fa tanta vergogna vederle così misere; vederle vender di nascosto le patate, le pere e i pomi ai bambini che entrano piano piano nel cortile, col soldo nel pugno, e domandando la roba sottovoce quasi si tratti di cosa rubata! Mi vergogno, sì! Questo deve cessare. Esse torneranno quelle che erano, se mi lasceranno fare. Se zia Noemi sapesse il bene che le voglio non farebbe così…»
«Giacinto! Dammi la mano: sei bravo!», disse Efix commosso.
Tacquero, poi Giacinto riprese a parlare con una voce tenue, dolce, che vibrava nel silenzio lunare come una voce infantile.
«Efix, tu sei buono. Ti voglio raccontare una cosa accaduta ad un mio amico. Era impiegato con me alla Dogana. Un giorno un ricco capitano di porto in ritiro, un buon signore grosso ma ingenuo come un bambino, venne per fare un pagamento. Il mio amico disse: Lasci i denari e torni più tardi per la ricevuta che dev’essere firmata dal superiore. Il capitano lasciò i denari; il mio amico li prese, andò fuori, li giocò e li perdette. E quando il capitano tornò, il mio amico disse che non aveva ricevuto nulla! Quello protestò, andò dai superiori; ma non aveva la ricevuta e tutti gli risero in faccia. Eppure il mio amico fu cacciato via dal posto… sì, saranno quattro mesi… sì, ricordo, in carnevale. Egli andò a ballare. Si stordiva, beveva: non aveva più un soldo. Uscendo dal ballo prese una polmonite e cadde su una panchina di un viale. Lo portarono all’ospedale. Quando uscì, debole e sfinito, non aveva casa, non aveva pane. Dormiva sotto gli archi del porto, tossiva e faceva brutti sogni: sognava sempre il capitano che lo inseguiva, lo inseguiva… come nelle scene del cinematografo. Ed ecco una sera, ecco proprio il capitano che va a cercarlo sotto gli archi del porto. L’amico credeva di sognare ancora; ma l’altro gli disse: sa, è da un pezzetto che la cerco. So che è fuori di posto per via del versamento, ma a me preme che i suoi superiori e tutti sappiano la verità. È meglio anche per lei: dica in sua coscienza: li ho versati o no, i denari? – l’amico rispose: sì. – Allora il capitano disse: – Cerchiamo di aggiustare le cose. Io non voglio rovinarla: venga a casa mia, ecco il mio indirizzo: venga domani e assieme andremo dai suoi superiori. – Va bene! Ma l’indomani né poi l’amico andò. Aveva paura. Aveva paura. Eppoi il tempo era orribile ed egli non si muoveva di là. Tossiva e un facchino gli portava di tanto in tanto un po’ di latte caldo. Che tempo era? Che tempo!», ripeté Giacinto, e sollevò il viso guardandosi attorno quasi per accertarsi che la notte era bella.
Efix ascoltava, col gomito sul ginocchio e il viso sulla mano, come i bambini intenti alle fiabe.