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«Ma un giorno mi decisi e andai…»

Silenzio. Il viso dei due uomini si coprì d’ombra ed entrambi abbassarono gli occhi. La spalla di Giacinto tremava convulsa; ma egli la sollevò e la scosse come per liberarsi dal tremito, e riprese con voce più dura:

«Sì, ero io, tu avevi capito. Andai dal capitano. Non era in casa, ma la cameriera, una ragazza pallida che parlava sottovoce, mi fece aspettare in anticamera. La stanza era quasi buia, ma ricordo che quando un uscio s’apriva il pavimento rosso luccicava come lavato col sangue. Aspettai ore ed ore. Finalmente il capitano tornò; era con la moglie, grossa come lui, bonaria come lui. Sembravano due bambini enormi; ridevano rumorosamente. La signora aprì gli usci per vedermi bene: io tossivo e sbadigliavo. Si accorsero che avevo fame e m’invitarono ad entrare nella sala da pranzo. Io, ricordo, mi alzai, ma ricaddi seduto battendo la testa alla spalliera della cassapanca. Non ricordo altro. Quando rinvenni ero a letto, in casa loro. La cameriera mi portava una tazza di brodo su un vassoio d’argento e mi parlava con grande rispetto. Rimasi là più di un mese, Efix, capisci: quaranta giorni. Mi curarono, cercarono di rimettermi a posto; ma il posto era difficile trovarlo perché tutti ormai sapevano la mia storia. d’altronde anch’io volevo andarmene lontano, al di là del mare. Ciò che io ho sofferto durante quel tempo nessuno può saperlo: il capitano, sua moglie, la serva io li vedo sempre in sogno; li vedo anche nella realtà, anche adesso, lì, davanti a me. Essi erano buoni, ma io vorrei sprofondarmi per non vederli più. E il peggio è che non «potevo» andarmene da casa loro. Stavo lì, istupidito, seduto immobile ad ascoltare la signora che parlava parlava parlava, o in compagnia della serva che taceva: sedevo a tavola con loro, li sentivo scherzare, far progetti per me, come fossi un loro figliuolo, e tutto mi dava pena, mi umiliava, eppure non «potevo» andarmene. Finalmente un giorno la signora, vedendomi completamente guarito, mi domandò che intenzioni avevo. Io dissi che volevo venire qui dalle mie zie, di cui avevo parlato come di persone benestanti. Allora mi comprarono il biglietto per il viaggio e mi regalarono anche la bicicletta. Io capii ch’era tempo d’andarmene e partii: venni qui. Che liberazione, in principio! Ma adesso, in casa delle zie, sono ancora come là… e non so…».

Un grido che aveva qualche cosa di beffardo attraversò il silenzio del ciglione, sopra i due uomini, e Giacinto balzò sorpreso credendo che qualcuno avesse ascoltato il suo racconto e lo irridesse: ma vide una piccola forma grigia lunga, seguita da un’altra più scura e più corta, balzare come volando da una macchia all’altra intorno alla capanna e sparire senza neppur lasciargli tempo di raccattare un sasso per colpirla.

Anche Efix s’era alzato.

«Son le volpi», disse sottovoce. «Lasciale correre: fanno all’amore. Sembrano folletti, alle volte» riprese mentre Giacinto si buttava di nuovo per terra silenzioso. «Hai veduto com’eran lunghe? Mangiano l’uva acerba come diavoli…»

Ma Giacinto non parlava più. Ed Efix non sapeva cosa dire, se pregarlo di riprendere il racconto, se confortarlo, se commentare in bene o in male quanto aveva sentito. Ecco perché era stato triste, tutto il giorno, ecco come vanno le cose della vita! Ma che dire? In fondo era contento che il passaggio delle volpi avesse fatto tacere Giacinto; tuttavia qualche cosa bisognava pur dire.

«Dunque… quel capitano? Si vede che era uomo savio: capiva che la gioventù… la gioventù… è soggetta all’errore… Eppoi quando si è orfani! Su, alzati; vuoi mangiare?»

Entrò nella capanna e tornò sbucciando una cipolla: Giacinto stava immobile, abbattuto, forse pentito della sua confessione, ed egli non osò più parlare.

L’odore della cipolla si mischiava al profumo delle erbe intorno, della vite e della salsapariglia; le volpi ripassarono. Efix cenò ma il pane gli parve amaro. E due o tre volte tentò di dire qualche cosa; ma non poteva, non poteva; gli sembrava un sogno. Finalmente scosse Giacinto, tentò di sollevarlo, gli disse con dolcezza:

«Su, vieni dentro! La febbre è in giro…».

Ma il corpo del giovine sembrava di bronzo, steso grave aderente alla terra dalla quale pareva non volesse più staccarsi.

Efix rientrò nella capanna, ma tardò a chiudere gli occhi, e anche nel sonno aveva l’idea tormentosa di dover commentare il racconto di Giacinto, non sapeva però come, se in bene o in male.

«Devo dirgli: ebbene, coraggio, ti emenderai! Dopo tutto eri un ragazzo, un orfano…»

Ma sognò Noemi che lo guardava coi suoi occhi cattivi, e gli diceva sottovoce, a denti stretti:

«Lo vedi? Lo vedi che razza di uomo è?».

Si svegliò con un peso sul cuore; benché fosse notte ancora si alzò, ma Giacinto se n’era già andato.

Per molti giorni non si lasciò più vedere, tanto che Efix cominciò a inquietarsi, anche perché gli ortaggi e i pomi si ammucchiavano all’ombra della capanna e nessuno veniva a prenderli.

Ogni sera don Predu, che possedeva grandi poderi verso il mare, passava di ritorno al paese, e se vedeva il servo tendeva l’indice verso la terra delle sue cugine e poi si toccava il petto per significare che aspettava l’espropriazione e il possesso del poderetto; ma Efix, abituato a quella mimica, salutava, e a sua volta accennava di no, di no, con la mano e con la testa.

Dopo la confessione di Giacinto s’inquietava però vedendo don Predu; gli sembrava più beffardo del solito.

Una sera aspettò accanto alla siepe, e gli chiese:

«Don Predu, mi dica, ha veduto il mio padroncino? l’altra sera venne qui che aveva la febbre e adesso sto in pensiero per lui».

Don Predu rise, dall’alto del cavallo, col suo riso forzato a bocca chiusa, a guance gonfie.

«Ieri sera l’ho veduto a giocare dal Milese. E perdeva, anche!»

«Perdeva!», ripeté Efix smarrito.

«Come lo dici! Vuoi che vinca sempre?»

«A me disse che non giocava mai…»

«E tu lo credi? Non dice una verità neanche se gli dai una fucilata. Ma non è cattivo: dice le bugie, così perché gli sembran verità, come i bambini.»

«Come un bambino davvero…»

«Un bambino che ha tutti i denti però! E come mastica! Vi mangerà anche il poderetto. Efix, ricordati: son qua io! Se no, bastonate…»

Efix lo guardava dal basso, spaurito; e il grosso uomo a cavallo gli sembrava, nel crepuscolo rosso, un uccello di malaugurio, uno dei tanti mostri notturni di cui aveva paura.

«Gesù, salvaci. Nostra Signora del Rimedio, pensa a noi…»

Don Predu s’era già allontanato, quando Efix lo raggiunse nello stradone porgendogli con tutte e due le mani un cestino colmo di pomi e di ortaggi.

«Don Predu, mandi questo con la sua serva alle mie padrone. Io non posso abbandonare il poderetto… e don Giacinto non viene…»

Da prima l’uomo lo guardò sorpreso; poi un sorriso benevolo gli increspò le labbra carnose. Sollevò una gamba e disse:

«Guarda lì, c’è posto».

Efix cacciò il cestino entro la bisaccia, e mentre don Predu andava via senza dir altro, se ne tornò su alla capanna: aveva paura che le padrone lo sgridassero; sapeva d’aver commesso un atto grave, forse un errore; ma non si pentiva. Una mano misteriosa lo aveva spinto, ed egli sapeva che tutte le azioni compiute così, per forza sovrannaturale, sono azioni buone.

Aspettò Giacinto fino al tardi. La luna piena imbiancava la valle, e la notte era così chiara che si distingueva l’ombra d’ogni stelo. Persino i fantasmi, quella notte, non osavano uscire, tanta luce c’era: e il mormorio dell’acqua era solitario, non accompagnato dallo sbatter dei panni delle «panas». Anche i fantasmi avevan pace, quella notte. Il servo solo non poteva dormire. Pensava alla storia di Giacinto e del capitano di porto, e provava un senso d’infinita dolcezza, d’infinita tristezza.

Tutti, nel mondo, pecchiamo, più o meno, adesso, o prima o poi: e per questo? Il capitano non aveva perdonato? Perché non dovevano perdonare anche gli altri? Ah, se tutti si perdonassero a viceversa! Il mondo avrebbe pace: tutto sarebbe chiaro e tranquillo come in quella notte di luna.