s’alzò e andò a fare un giro nel poderetto. Sì, sul sentieruolo bianco si disegnava anche l’ombra dei fiori: le foglie dei fichi d’India avevano le spine, nell’ombra, e dove l’acqua era ferma, giù al fiume, si vedevano le stelle.
Ma ecco un’ombra che si muove dietro la siepe, fra gli ontani: è un animale deforme, nero, con le gambe d’argento: scricchiola sulla sabbia, si ferma.
Efix corse giù; gli sembrava di volare.
«Sei tu! Sei tu? m’hai spaventato.»
Giacintino si tirò a fianco la bicicletta e lo seguì silenzioso; ma ancora una volta, arrivati davanti alla capanna si buttò a terra gemendo:
«Efix. Efix, non ne posso più… Che hai fatto! Che hai fatto!».
«Che ho fatto?»
«Non so bene neppur io. È venuta la serva di zio Pietro, portando un cestino, dicendo che lo avevi consegnato tu al suo padrone. c’erano zia Ruth e zia Noemi in casa, poiché zia Ester era alla novena: presero il cestino e ringraziarono la serva, e le diedero anche la mancia; ma poi zia Noemi fu colta da uno svenimento. E zia Ruth la credeva morta, e gridò. Corsero a chiamare zia Ester; ella venne spaventata, e per la prima volta anche lei mi guardò torva e mi disse che son venuto per farle morire. Oh Dio, Dio, oh Dio, Dio! Io bagnavo il viso di zia Noemi con l’aceto e piangevo, te lo giuro sulla memoria di mia madre; piangevo senza sapere perché. Finalmente zia Noemi rinvenne e mi allontanò con la mano; diceva: era meglio fossi morta, prima di questo giorno. Io domandavo: perché? perché, zia Noemi mia, perché? E lei mi allontanava con una mano, nascondendosi gli occhi con l’altra. Che pena! Perché son venuto, Efix? Perché?»
Il servo non sapeva rispondere. Adesso vedeva, sì, tutto l’errore commesso, consegnando il cestino a don Predu e pensava al modo di rimediarvi, ma non vedeva come, non sapeva perché, e ancora una volta sentiva tutto il peso delle disgrazie dei suoi padroni gravare su lui.
«Sta’ quieto», disse infine. «Tornerò io domani al paese e rimedierò tutto.»
Allora Giacinto riprese
«Tu devi dire alle zie che non son stato io a consigliarti di incaricare zio Pietro della consegna del cestino. Esse credono così. Esse credono, e zia Noemi specialmente, che io cerchi l’amicizia di zio Pietro per far dispetto a loro. Io sono amico di tutti; perché non dovrei esserlo di zio Pietro? Ma le zie sanno che egli vuole comprare il poderetto. Che colpa ne ho io? Sono io che voglio venderlo, forse?»
«Nessuno vuol venderlo. Perché parlare di queste cose? Ma tu, anima mia, tu… tu l’altra sera dicevi questo, dicevi quest’altro: promettevi mari e monti, per far felici le tue zie; e ieri sera, invece, sei andato a giocare…»
«Giocando tante volte si guadagna. Io voglio guadagnare, appunto per «loro»: no, non voglio più essere a carico loro. Voglio morire… Vedi» aggiunse sottovoce «adesso, dopo la scena di oggi, mi pare di essere ancora nella casa del capitano… Dio mi aiuti, Efix!»
Efix ascoltava con terrore: sentiva d’essere di nuovo davanti al destino tragico della famiglia alla quale era attaccato come il musco alla pietra, e non sapeva che dire, non sapeva che fare.
«Oh», sospirò profondamente Giacinto. «Ma di qui me ne vado certo; non aspetto che mi caccino via! Sono senza carità, le mie zie, specialmente zia Noemi. Non m’importa, però: essa non ha perdonato mia madre; come può perdonare me? Ma io, ma io…»
Abbassò la testa e trasse di saccoccia una lettera.
«Vedi, Efix? So tutto. Se zia Noemi non ha perdonato mia madre dopo questa lettera, come può aver l’animo buono? Tu lo sai cosa c’è, in questa lettera, l’hai portata tu, a zia Noemi. Ed io gliel’ho presa: stava sul lettuccio, il giorno del mio arrivo: io ne lessi qualche riga, poi la presi dall’armadio, oggi… È mia; è di mia madre; è mia… Non è degna di stare là questa lettera…»
«Giacinto! Dammela!», disse Efix stendendo le mani. «Non è tua! Dammela: la riporterò io, alle mie padrone.»
Ma Giacinto stringeva la lettera fra le palme delle mani e scuoteva la testa. Efix cercò di prendergliela: supplicava, pareva domandasse un’elemosina suprema.
«Giacinto, dammela. La riporterò io, la rimetterò nell’armadio. Parlerò io con loro, metterò pace. Tu aspettami qui. Ma dammi la lettera.»
Giacinto lo guardò. La sua spalla tremava, ma gli occhi erano freddi, quasi crudeli. Allora Efix balzò, gli gravò le mani sulle spalle, gli sibilò all’orecchio una parola.
«Ladro!»
Giacinto ebbe l’impressione di essere assalito da un avvoltoio; aprì le mani e la lettera cadde per terra.
Capitolo settimo
All’alba Efix s’avviò al villaggio.
Gli usignoli cantavano, e tutta la valle era color d’oro – un oro azzurrognolo per il riflesso del cielo luminoso. Qualche figura di pescatore si disegnava immobile come dipinta in doppio sul verde della riva e sul verde dell’acqua stagnante fra i ciottoli bianchi.
Benché fosse presto, quando arrivò al villaggio, Efix vide l’usuraia filare nel suo cortile, fra i porcellini grassi e i colombi in amore, e la salutò accennandole che sarebbe passato più tardi; ma ella rispose agitando il fuso: ella poteva aspettare, non aveva fretta.
Più su, ecco zia Pottoi, con una ciotola di latte per la colazione dei ragazzi. Efix cercò di passare oltre, ma la
vecchia cominciò a parlar alto ed egli dovette fermarsi per ascoltarla.
«Ebbene, che ti ho fatto? Perché i ragazzi si voglion bene, dobbiamo odiarci noi, vecchi?»
«Ho fretta, comare Pottoi.»
«Lo so, c’è chiasso, in casa delle tue padrone. Ma la colpa non è mia. Io ci perdo, in questa occasione. Il tuo padroncino vuole che Grixenda stia a casa, che non vada più scalza, che non vada più a lavare. Io devo fare la serva; ma lo faccio con piacere poiché si tratta di render felici i ragazzi…»
«Signore, aiutaci!», sospirò Efix. «Lasciatemi, comare Pottoi. Pregate Cristo, pregate Nostra Signora del Rimedio…»
«Il rimedio è in noi», sentenziò la vecchia. «Cuore, bisogna avere, null’altro…»
«Cuore, bisogna avere», ripeteva Efix fra se, entrando dalle sue padrone.
Tutto era silenzio e sole nel cortile: fiorivano i gelsomini sopra il pozzo e le ossa dei morti fra l’erba d’oro dell’antico cimitero. Il Monte circondava col suo cappuccio verde e bianco la casa; una colonnina istoriata era caduta dal balcone e giaceva in mezzo ai sassolini come l’avanzo di un razzo. Tutto era silenzio. Efix entrò e vide che il cestino mandato da lui con don Predu era quasi vuoto sopra il sedile, segno che gli ortaggi eran già stati venduti: rimanevano solo i pomini gialli di San Giovanni: gli parve quindi di aver sognato. Sedette e domandò:
«Dove son le altre? Che è accaduto?».
«Ester è a messa, Noemi è su», disse donna Ruth, curva a preparare il caffè.
E non disse altro, finché non arrivarono le sorelle, donna Ester col dito fuori dell’incrociatura dello scialle, Noemi pallida silenziosa con le palpebre violette abbassate.
Efix non osava guardarle; s’alzò rispettoso davanti a loro che prendevano posto sul sedile, e solo dopo che donna Ester ebbe domandato:
«Efix, sai che succede?», egli sollevò gli occhi e vide che Noemi lo fissava come il giudice fissa l’accusato.
«Lo so. La colpa è mia. Ma l’ho fatto a scopo di bene.»
«Tu fai tutto, a scopo di bene! Sarebbe bella che lo facessi a scopo di male, anche! Ma intanto…»
«Ebbene, non era poi un nemico! È un parente, alla fine!»
«Gente tua, morte tua, Efix!»
«Ebbene, non accadrà più, vuol dire!»
«È partito?», domandò allora donna Ester, turbandosi.