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«Partito? Don Predu? Dove?»

«Chi parla di Predu? Io parlavo di quel disgraziato.»

Efix guardò il cestino.

«Io volevo dire per don Predu… per quello che ho fatto ieri.»

Noemi sorrise, ma un sorriso che le torse la bocca e l’occhio verso l’orecchio sinistro.

«Efix», disse con voce aspra, «noi parliamo di Giacinto. Tu, quando si trattava di farlo venire, dicesti: "Se si comporta male penso io a mandarlo via". Hai sì o no detto questo?»

«Lo dissi.»

«E allora tieni la promessa. Giacinto è la nostra rovina.»

Efix abbassò un momento la testa: arrossiva e aveva vergogna di arrossire, ma subito si fece coraggio e domandò:

«Posso dire una parola? Se è mal detta è come non detta».

«Parla pure.»

«Il ragazzo a me non sembra cattivo. È stato finora mal guidato: ha perduto i genitori nel peggior tempo per lui, ed è rimasto come un bambino solo nella strada e s’è perduto. Bisogna ricondurlo nella buona via. Adesso, qui, in paese, non sa che fare; ha la febbre, s’annoia, va perciò a giocare e a fare all’amore. Ma ha idee buone, è beneducato. Vi ha mancato mai di rispetto?…»

«Questo no…», proruppe donna Ester, e anche donna Ruth fece cenno di no. Ma Noemi disse con voce amara, stringendo lentamente i pugni e stendendoli verso Efix:

«Dacché è venuto non ha fatto altro che mancarci di rispetto. Già, è venuto senza dir nulla… Appena arrivato ha fatto relazione con tutta la gente che ci disprezza. Poi s’è messo a far all’amore con la ragazza della peggior razza di Galte. Una che va scalza al fiume! Ed è stato ozioso, e vive nel vizio, tu stesso lo dici. Se questo non è mancare di rispetto a noi, alla casa nostra, che cos’è? Dillo tu, in tua coscienza…».

«È vero», ammise Efix. «Ma è un ragazzo, ripeto. Bisognerebbe aiutarlo, cercargli un’occupazione. Poi vorrei dire un’altra cosa…»

«E parla pure!», disse Noemi, ma con tale disprezzo ch’egli si sentì gelare. Tuttavia osò:

«Io credo che gli gioverebbe aver famiglia propria. Se ama davvero quella ragazza… perché non lasciargliela sposare?…».

Noemi balzò su, appoggiando le gambe tremanti al sedile.

«Ti ha pagato, per parlare così?»

Allora egli ebbe il coraggio di guardarla negli occhi, e una risposta sola: «io non sono avvezzo a esser pagato» gli riempì la bocca di saliva amara; ma ringhiottì parole e saliva perché vedeva donna Ester tirar la giacca di Noemi, e donna Ruth pallida guardarlo supplichevole, e capiva ch’esse tutte indovinavano la sua risposta, e sapevano che non era un servo da esser pagato lui; o meglio, sì, un servo, ma un servo che nessun compenso al mondo poteva retribuire.

«Donna Noemi! Lei dice cose che non pensa, donna Noemi! Suo nipote non ha denari, per potermi pagare, e quando anche ne avesse non gli basterebbero!», disse tuttavia, vibrante di rancore, e Noemi tornò a sedersi, posando le mani sulle ginocchia quasi per nascondere il tremito.

«In quanto a denari ne ha! Non suoi, ma ne ha.»

«E chi glieli dà?»

Sei occhi lo fissarono meravigliati: Noemi tornò a sogghignare; ma donna Ester posò una mano sulla mano di lei e parlò con dolcezza.

«Egli prende i denari da Kallina. Noi credevamo che tu lo sapessi, Efix! Prende i denari da Kallina, a usura, e Predu gli ha firmato qualche cambiale perché spera di toglierci il poderetto. Comprendi!»

Egli comprendeva. A testa curva, a occhi chiusi, livido, apriva e chiudeva i pugni spaventato e non gli riusciva di rispondere.

«E loro credevano ch’io sapessi? E come?… e perché?…», si domandava.

«Sì», disse Noemi con crudeltà. «Noi credevamo che tu lo sapessi, non solo, ma che gli facessi garanzia presso la tua amica Kallina…»

«La mia amica?», egli gridò allora aprendo gli occhi spauriti. E vide rosso. Gridò ancora qualche parola, ma senza sapere quel che diceva, e corse via agitando la berretta come andasse a spegnere un incendio.

Si trovò nel cortiletto dell’usuraia.

Tutto era pace là dentro come nell’arca di Noè. Le colombe bianche tubavano, con le zampe di corallo posate sull’architrave della porticina sotto un tralcio di vite che gettava una ghirlanda d’oro sulla sua ombra nera; e in questa cornice l’usuraia filava, coi piccoli piedi nudi entro le scarpette ricamate, il fazzoletto ripiegato sulla testa.

Lo spasimo di Efix turbò la pace del luogo.

«Dimmi subito come va l’affare di don Giacinto.»

L’usuraia sollevò le sopracciglia nude e lo guardò placida.

«Ti manda lui?»

«Mi manda il boia che ti impicchi! Parla, e subito, anche.»

Con un gesto minaccioso le fermò il fuso ed ella ebbe paura ma non lo dimostrò.

«Ti mandano le tue dame, allora? Ebbene, dirai loro che non si prendano pensiero. c’è tempo, a pagare, non ho fretta. In tutto ho dato quattrocento scudi, al ragazzo. Egli cominciò a chiedermi i quattrini quando eravamo alla festa. Voleva far bella figura. Diceva che aspettava denari dal Continente. Mi rilasciò una cambiale firmata da don Predu. Come potevo dire di no? Dopo, ritornò, qui. Mi disse che i denari del Continente li aveva giocati col Milese e li aveva perduti. Io gli dissi che portavo la cambiale da don Predu: allora si spaventò e me ne portò un’altra firmata da donna Ester. Allora gli diedi altri denari. Come potevo dire di no? Tu non sapevi nulla?», ella concluse riprendendo a filare.

Efix era annientato. Ricordava che donna Ester aveva di nascosto scritto a Giacinto di venire; di nascosto poteva anche aver firmato la cambiale. Come avrebbero pagato? Gli pareva di non potersi più muovere, d’aver le gambe gonfie, pesanti di tutto il sangue che gli calava giù lasciandogli vuoto il cuore e la testa e le mani inerti. Come avrebbero pagato?

E l’usuraia filava e le colombe tubavano, e le galline beccavano le mosche sulla pancia rosea dei porcellini stesi al sole: tutto il mondo era tranquillo. Lui solo spasimava.

«Ah, dunque non lo sapevi? Io credevo che parte del denaro l’avessero tenuto loro, le dame, per pagarti. Anzi volevo proporre a don Giacinto di scontare i dieci scudi che tu mi devi, ma in fede mia poi ho pensato che non andava bene: se però, rinnovando la cambiale, vogliamo fare tutto un conto…»

Efix fece uno sforzo per muoversi: si strappò di nuovo la berretta dal capo e cominciò a sbattergliela sul viso, pazzo di disperazione.

«Ah, maledetta tu sii… ah, che il boia t’impicchi… ah, che hai fatto?»

Nel cortiletto fu tutto un subbuglio; le colombe volarono sul tetto, i gatti s’arrampicarono sui muri; solo la donna taceva per non far accorrere gente, ma si curvò per sfuggire ai colpi e si difese col fuso, balzando, indietreggiando, e quando fu dentro la cucina si volse verso l’angolo dietro la porta, afferrò con tutte e due le mani un palo di ferro e si drizzò, ferma contro la parete, terribile come una Nemesi con la clava.

E fu lei allora a far indietreggiare l’uomo, dicendogli sottovoce, minacciosa:

«Vattene, assassino! Vattene…».

Egli indietreggiava.

«Vattene! Che vuoi da me, tu? Vengo io, a cercarvi, forse? Venite voi tutti, da me, quando la fame o i vizi vi spingono. È venuto don Zame, son venute le sue figlie, è venuto suo nipote. Sei venuto anche tu, assassino! E quando avete bisogno siete buoni, e poi diventate feroci come il lupo affamato. Vattene…»

Efix era sulla porta: ella lo incalzava.

«Anzi ti devo dire che non voglio più pazientare, giacché mi trattate così. O alla scadenza, in settembre, mi pagate, o protesto la cambiale. E se la firma è falsa, metto il ragazzo in prigione. Va’!»

Egli se ne andò. Ma non tornò a casa; andava andava per il paesetto deserto sotto il sole: inciampava nelle pietre vulcaniche sparse qua e là, e gli pareva che il terremoto ricordato dalla tradizione fosse avvenuto quella mattina stessa.

Egli s’aggirava tra le rovine; e gli sembrava di aver l’obbligo di scavare, di ritrarre i cadaveri dalle macerie, i tesori di sottoterra, ma di non potere, così solo com’era, così debole, così incerto sul punto da incominciare.