«Ho corso come un cerbiatto: avevo paura dei folletti…»
Efix sollevò il viso olivastro duro come una maschera di bronzo, e fissò il ragazzo coi piccoli occhi azzurrognoli infossati e circondati di rughe: e quegli occhi vivi lucenti esprimevano un’angoscia infantile.
«Ti han detto s’io devo tornare domani o stanotte?»
«Domani, vi dico! Intanto che voi sarete in paese io starò qui a guardare il podere.»
Il servo era abituato a obbedire alle sue padrone e non fece altre richieste: tirò una cipolla dal grappolo, un pezzo di pane dalla bisaccia e mentre il ragazzo mangiava ridendo e piangendo per l’odore dell’aspro companatico, ripresero a chiacchierare. I personaggi più importanti del paese attraversavano il loro discorso: prima veniva il Rettore, poi la sorella del Rettore, il sindaco, cugino delle padrone di Efix. Anche don Predu era ricco, ma non come il Milese. Poi veniva Kallina l’usuraia, ricca anche lei ma in modo misterioso.
«I ladri han tentato di rompere il suo muro. Inutile: è fatato. E lei rideva, stamattina, nel suo cortile, dicendo: anche se entrano trovano solo cenere e chiodi, povera come Cristo. Ma la mia nonna dice che zia Kallina ha un sacchettino pieno d’oro nascosto dentro il muro.»
Ma a Efix in fondo poco importavano queste storie. Coricato sulla stuoia, con una mano sotto l’ascella e l’altra sotto la guancia sentiva il cuore palpitare e il fruscìo delle canne sopra il ciglione gli sembrava il sospiro d’uno spirito malefico.
La lettera gialla! Giallo, brutto colore. Chissà cosa doveva ancora accadere alle sue padrone. Da venti anni a questa parte quando qualche avvenimento rompeva la vita monotona di casa Pintor era invariabilmente una disgrazia.
Anche il ragazzo s’era coricato, ma non aveva voglia di dormire.
«Zio Efix, anche oggi la mia nonna raccontava che le vostre padrone erano ricche come don Predu. È vero o non è vero?»
«È vero», disse il servo sospirando. «Ma non è ora di ricordar queste cose. Dormi.»
Il ragazzo sbadigliò.
«Ma mia nonna racconta che dopo morta donna Maria Cristina, la vostra beata padrona vecchia, passò come la scomunica, in casa vostra. È vero o non è vero?»
«Dormi, ti dico, non è ora…»
«E lasciatemi parlare! E perché è fuggita donna Lia, la vostra padrona piccola? La mia nonna dice che voi lo sapete: che l’avete aiutata a fuggire, donna Lia: l’avete accompagnata fino al ponte, dove si è nascosta finché è passato un carro sul quale ella è andata fino al mare. Là si è imbarcata. E don Zame, suo padre, il vostro padrone, la cercava, la cercava, finché è morto. È morto là, accanto al ponte. Chi l’ha ucciso? Mia nonna dice che voi lo sapete…»
«Tua nonna è una strega! Lei e tu, tu e lei lasciate in pace i morti!», gridò Efix; ma la sua voce era roca, e il ragazzo rise con insolenza.
«Non arrabbiatevi, che vi fa male, zio Efix! Mia nonna dice che è stato il folletto, a uccidere don Zame. È vero o non è vero?»
Efix non rispose: chiuse gli occhi, si mise la mano sull’orecchio, ma la voce del ragazzo ronzava nel buio e gli sembrava la voce stessa degli spiriti del passato.
Ed ecco a poco a poco tutti vengono attorno, penetrano per le fessure come i raggi della luna: è donna Maria Cristina, bella e calma come una santa, è don Zame, rosso e violento come il diavolo: sono le quattro figlie che nel viso pallido hanno la serenità della madre e in fondo agli occhi la fiamma del padre: sono i servi, le serve, i parenti, gli amici, tutta la gente che invade la casa ricca dei discendenti dei Baroni della contrada. Ma passa il vento della disgrazia e la gente si disperde, come le nuvolette in cielo attorno alla luna quando soffia la tramontana.
Donna Cristina è morta; il viso pallido delle figlie perde un poco della sua serenità e la fiamma in fondo agli occhi cresce: cresce a misura che don Zame, dopo la morte della moglie, prende sempre più l’aspetto prepotente dei Baroni suoi antenati, e come questi tiene chiuse dentro casa come schiave le quattro ragazze in attesa di mariti degni di loro. E come schiave esse dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e soprattutto, non dovevano sollevar gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo. Ma gli anni passavano e lo sposo non veniva. E più le figlie invecchiavano più don Zame pretendeva da loro una costante severità di costumi. Guai se le vedeva affacciate alle finestre verso il vicolo dietro la casa, o se uscivano senza suo permesso. Le schiaffeggiava coprendole d’improperi, e minacciava di morte i giovani che passavano due volte di seguito nel vicolo.
Egli intanto passava le giornate a girovagare per il paese, o seduto sulla panca di pietra davanti alla bottega della sorella del Rettore. Le persone scantonavano nel vederlo, tanto avevan paura della sua lingua. Egli litigava con tutti, ed era talmente invidioso del bene altrui, che quando passava in un bel podere diceva "le liti ti divorino". Ma le liti finivano col divorare le sue terre, e una disgrazia inaudita lo colpì a un tratto come un castigo di Dio per la sua superbia e i suoi pregiudizi. Donna Lia, la terza delle sue figlie, sparì una notte dalla casa paterna e per lungo tempo non si seppe più nulla di lei. Un’ombra di morte gravò sulla casa: mai nel paese era accaduto uno scandalo eguale; mai una fanciulla nobile e beneducata come Lia era fuggita così. Don Zame parve impazzire; corse di qua e di là; per tutto il circondario e lungo la Costa in cerca di Lia; ma nessuno seppe dargliene notizie. Finalmente ella scrisse alle sorelle, dicendo di trovarsi in un luogo sicuro e d’esser contenta d’aver rotto la sua catena. Le sorelle però non perdonarono, non risposero. Don Zame era divenuto più tiranno con loro. Vendeva i rimasugli del suo patrimonio, maltrattava il servo, annoiava mezzo mondo con le sue querele, viaggiava sempre con la speranza di rintracciare sua figlia e ricondurla a casa. L’ombra del disonore che gravava su lui e su l’intera famiglia, per la fuga di Lia, gli pesava come una cappa da condannato. Una mattina fu trovato morto nello stradone, sul ponte dopo il paese. Doveva esser morto di sincope, perché non presentava traccia alcuna di violenza: solo una piccola macchia verde al collo, sotto la nuca. La gente disse che forse don Zame aveva litigato con qualcuno e che era stato ammazzato a colpi di bastone: ma col tempo questa voce tacque e predominò la certezza che egli fosse morto di crepacuore per la fuga di sua figlia.
Lia intanto, mentre le sorelle disonorate dalla fuga di lei non trovavano marito, scrisse annunziando il suo matrimonio. Lo sposo era un negoziante di bestiame ch’ella aveva incontrato per caso durante il suo viaggio di fuga: vivevano a Civitavecchia, in discreta agiatezza, dovevano presto avere un figlio.
Le sorelle non le perdonarono questo nuovo errore: il matrimonio con un uomo plebeo incontrato in così tristo modo: e non risposero.
Qualche tempo dopo Lia scrisse ancora annunziando la nascita di Giacinto. Esse mandarono un regalo al nipotino, ma non scrissero alla madre.
E gli anni passarono. Giacinto crebbe, e ogni anno per Pasqua e per Natale scriveva alle zie e le zie gli mandavano un regalo: una volta scrisse che studiava, un’altra volta che voleva entrare in Marina, un’altra ancora che aveva trovato un impiego; poi annunziò la morte di suo padre, poi la morte di sua madre; infine espresse il desiderio di visitarle e di stabilirsi con loro se al paese trovava da lavorare. Il suo piccolo impiego nell’Ufficio della Dogana non gli piaceva; era umile e penoso, gli sciupava la giovinezza. E lui amava la vita laboriosa, sì, ma semplice, all’aperto. Tutti gli consigliavano di recarsi nell’isola di sua madre, per tentar la fortuna con un onesto lavoro.
Le zie cominciarono a discutere; e più discutevano meno si trovavano d’accordo.
«Lavorare?», diceva donna Ruth, la più calma. Se il paesetto non dava risorse neppure a quelli che c’eran nati?