Passando davanti alla Basilica vide ch’era aperta ed entrò. Non c’era messa, ma la guardiana puliva la chiesa, e s’udiva il frusciar della scopa, nel silenzio della penombra, come se le antiche castellane vi passassero coi loro vestiti di broccato dallo strascico stridente.
Efix s’inginocchiò al solito posto sotto il pulpito, appoggiò la testa alla colonna e pregò. Il sangue tornava a circolargli nelle vene, ma caldo e pesante come lava; la febbre lo pungeva tutto, i raggi obliqui di polviscolo argenteo che cadevano dal tetto in rovina gli parevano buchi bianchi sul pavimento nero, e le figure pallide dei quadri guardavano tutte giù, si curvavano, stavano per staccarsi e cadere.
La Maddalena si spinge in avanti, affacciata alla sua cornice nera sul limite dell’ignoto. L’amore, la tristezza, il rimorso e la speranza le ridono e le piangono negli occhi profondi e sulla bocca amara.
Efix la guarda, la guarda, e gli sembra di ricordare una vita anteriore, remotissima, e gli sembra che ella gli accenni di accostarsi, di aiutarla a scendere, di seguirla…
Chiuse gli occhi. La testa gli tremava. Gli pareva di camminare con lei sulla sabbia lungo il fiume, sotto la luna: andavano, andavano, silenziosi cauti; arrivavano allo stradone accanto al ponte. Laggiù la sua visione si confondeva. c’era un carro su cui Lia sedeva, nascosta in mezzo a sacchi di scorza. Il carro spariva nella notte, ma sul ponte, sotto la luna, rimaneva don Zame morto, steso sulla polvere, con una macchia gonfia violetta come un acino d’uva sulla nuca. Efix s’inginocchiava presso il cadavere e lo scuoteva.
«Don Zame, padrone mio, su, su! Le sue figliuole l’aspettano.»
Don Zame restava immobile.
E singhiozzò così forte che la guardiana s’accostò a lui con la scopa.
«Efix, che hai? Stai male?»
Egli spalancò gli occhi spauriti e gli parve di vedere ancora Kallina col palo che gli gridava: «Assassino!».
«Ho la febbre… mi par di morire. Vorrei confessarmi…»
«E vieni proprio qui? Se non ti confessi col Cristo!», mormorò la guardiana sorridendo ironica; ma Efix appoggiò di nuovo la fronte alla colonna del pulpito e con gli occhi sollevati verso l’altare cominciò a balbettare confuse parole; grosse lagrime gli cadevano lungo il viso, deviavano verso il mento tremulo, cadevano goccia a goccia fino a terra.
Giacinto lo aspettava sdraiato davanti alla capanna.
Appena lo vide venir su, con in mano il cestino che sebbene vuoto pareva lo tirasse giù verso la terra, capì che si «sapeva tutto». Meglio! Così poteva liberarsi d’una parte del peso che lo schiacciava, la più vergognosa: il silenzio.
«Raccontami», disse mentre Efix sedeva al solito posto senza abbandonare il cestino. «Racconta!», ripeté più forte, poiché l’altro taceva. «Adesso?» Efix sospirò.
«E adesso? Le mie padrone si sono un po’ calmate perché ho promesso di cacciarti via, intendi? Esse credono che le cambiali son davvero firmate da don Predu ed io non ho avuto il coraggio di dir loro la verità perché le firme sono false, vero? Ah, sì, è vero? Ah, Giacinto, anima mia, che hai fatto! E adesso? Andrai a Nuoro? Lavorerai? Pagherai?»
«È tanto… è una somma grossa, Efix… Come fare?»
Ma Efix gli parlava sottovoce, curvo su lui delirante:
«Va’ figlio di Dio, va’! Io avrei voluto che tu non andassi, ma se io stesso ti dico d’andartene è perché non c’è altra salvezza. Ricordati le cose belle che dicevi, l’altra sera. Dicevi: voglio che le zie stian bene, voglio che la casa risorga… Queste cose le pensavo anch’io, quando tu dovevi venire. E invece! Invece, se tu non paghi, l’usuraia metterà all’asta il poderetto o ti caccerà in carcere per le firme false; e «loro» dovranno domandare l’elemosina… Questo hai fatto tu, questo! So che non l’hai fatto per male. Tu che promettevi, l’altra sera, tante cose belle, tu, figlio di Dio…».
La spalla di Giacinto ricominciò a tremare. Sollevò il viso, sotto il viso reclinato di Efix, e si guardarono disperati.
«Non l’ho fatto per male. Volevo guadagnare. Ma come si fa, in questo paese? Tu lo sai, tu che sei rimasto così… così… miserabile…»
«Le zie non rimetteranno un soldo», riprese, dopo un momento di silenzio ansioso. «c’è, sì, anche la firma di zia Ester; l’ho dovuta far io perché… l’usuraia non mi dava credito. Ma io pagherò, vedrai: e se no, andrò in carcere. Non importa.»
«Tu, dunque, Efix, hai denari?»
«Se ne avessi non sarei qui spezzato! Avrei già ritirato le cambiali…»
«Che fare, Efix, allora? Che fare?»
«Ebbene, senti: tu andrai ancora dall’usuraia e ti farai dare cento lire per recarti a Nuoro. Là cercherai il posto. L’importante è di cambiar strada, adesso; di sollevarti una buona volta. Intendi?»
Ma Giacinto, che fino all’ultimo momento aveva sperato nell’aiuto del servo, non rispose, non parlò più. Ripiegato su se stesso come una bestia malata, sentiva le cavallette volare crepitando tra le foglie secche e seguiva con uno sguardo stupido lo sbattersi delle loro ali iridate. Due gli caddero sulla mano, intrecciate, verdi e dure come di metallo. Egli trasalì. Pensò a Grixenda, pensò che doveva partire e non rivederla più, così povero da rinunziare anche a una creatura così povera. E affondò il viso tra l’erba, singhiozzando senza piangere, con le spalle agitate da un tremito convulso.
Capitolo ottavo
Era un giovedì sera e l’usuraia non filava per timore della «Giobiana», la «donna del giovedì», che si mostra appunto alle filatrici notturne e può loro cagionare del male.
Pregava, invece, seduta sullo scalino della porta sotto la ghirlanda della vite argentea e nera, alla luna: e ogni volta che guardava intorno le sembrava ancora di vedere, qua e là sulla muraglia dei fichi d’India, gli occhi di Efix verdi scintillanti d’ira. Eran le lucciole.
Eran le lucciole: ma anche lei credeva alle cose fantastiche, alla vita soprannaturale degli esseri notturni e ricordava che da ragazzetta, quando era povera e andava a chieder l’elemosina ed a raccogliere sterpi sotto le rovine del castello, e la fame e la febbre di malaria la perseguitavano come cani arrabbiati, una volta mentre scendeva fra i ciottoli, acuti come coltelli, in faccia al sole cremis fermo sopra i monti violetti di Dorgali, un signore l’aveva raggiunta, silenzioso, toccandola per la spalla. Era vestito di colore del sole e dei monti, e il viso si rassomigliava a quello di un figlio di don Zame Pintor morto giovane.
Ella lo aveva subito riconosciuto: era il Barone, uno dei tanti antichi Baroni i cui spiriti vivevano ancora tra le rovine del Castello, nei sotterranei scavati entro la collina e che finivano nel mare.
«Ragazza», le disse con voce straniera, «corri dalla «Maestra di parto», e pregala di venir su stanotte al Castello, perché mia moglie, la Barona, ha i dolori. Corri, salva un’anima. Tieni il segreto. Prendi questo.»
Ma Kallina tremava sostenendosi al suo fascio di legna che contro il sole cremis le pareva una nuvola nera; non poté quindi stendere la manina e le monete d’oro che il Barone porgeva caddero per terra.
Egli sparve. Ella buttò il fascio, raccolse i denari paurosa come l’uccellino che becca le briciole e scappò via agile saltellante; ma la «Maestra di parto», sebbene vedesse le monete calde umide entro i pugni ardenti di lei, le sputacchiò sul viso per toglierle lo spavento e le disse ridendo:
«Vai che hai la febbre e il delirio; le monete le avrai trovate. Se ne trovano ancora, sotto il Castello. Dammele, che te le farò «fruttare».
Kallina gliele diede; solo ne tenne una col buco e se la mise al collo infilata ad un correggiuolo rosso.
«Andate», disse alla donna. «Salvate un’anima. Voi fingete di non crederci perché io tenga il segreto. Ma lo terrò lo stesso.»