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Capitolo nono

Una sera, in luglio, Noemi stava seduta al solito posto nel cortile, cucendo. La giornata era stata caldissima e il cielo d’un azzurro grigiastro pareva soffuso ancora della cenere d’un incendio di cui all’occidente si smorzavano le ultime fiamme; i fichi d’India già fioriti mettevano una nota d’oro sul grigio degli orti e laggiù dietro la torre della chiesa in rovina i melograni di don Predu parevano chiazzati di sangue.

Noemi sentiva entro di sé tutto questo grigio e questo rosso. Il suo male primaverile di tutti gli anni non cessava col sopraggiungere dell’estate, anzi ogni giorno di più un bisogno violento di solitudine la spingeva a nascondersi per abbandonarsi meglio al suo struggimento come un malato che non spera più di guarire.

Quel giorno era sola. Donna Ester e donna Ruth avevano accettato l’invito del Rettore di far parte del comitato d’una festa; Giacinto era ad Oliena ad acquistar vino per conto del Milese. Sì, ridotto a questo: a fare il servo ad uno ch’era stato mercante girovago. Noemi lo disprezzava, non gli rivolgeva la parola, ma quando era sola lo rivedeva curvo su lei a bagnarle il viso con l’aceto e con le sue lagrime, e la voce tremante di lui, le sue parole:

«Zia Noemi mia mia, perché perché questo?», e gli occhi di lui tristi e ardenti come quel cielo d’estate non le uscivano di mente.

Le sembrava di sentire sulle labbra il sapore delle lagrime di lui – ed era il sapore di tutta la tristezza, di tutta la debolezza umana: allora la solita immagine di lui annoiato, spostato, avvilito, di lui contro cui non si poteva combattere perché dava l’impressione d’un masso precipitato dal monte a rovinar la casa, spariva per lasciar posto all’immagine di lui buono, pentito, appassionato.

Questa immagine, sì, Noemi la amava; e a volte la sentiva così viva e reale accanto a lei che arrossiva e piangeva come assalita da un amante penetrato di nascosto nel cortile.

La sua anima allora vibrava tutta di passione; un turbine di desiderio la investiva portando via tutti i suoi pensieri tristi come il vento che passa e spoglia l’albero di tutte le sue foglie morte.

Le sembrava d’esser svenuta, come quel giorno, e che le sue lagrime fossero quelle di Giacinto; e le sorbiva come il succo d’un frutto acre con le labbra avide tremanti di tutti i baci che non avevano dato né ricevuto. La giovinezza, l’ardore, il dolore di Giacinto si trasfondevano in lei: dimenticava i suoi anni, il suo aspetto, la sua assenza; le sembrava d’essere distesa sotto un’acqua limpida nel folto di un bosco e di vedere una figura curvarsi a bere, a bere, sopra la sua bocca: era Giacinto, ma era anche lei, Noemi viva, assetata d’amore: era uno spirito misterioso che sorbiva tutta l’acqua della sorgente, tutta la vita dalla bocca di lei, tanta sete insaziabile aveva; e si stendeva poi nel cavo della fontana nel folto del bosco e formava un essere solo con lei.

Un colpo al portone la richiamò. Andò ad aprire, credendo fossero le sorelle o Giacinto stesso, della cui presenza non aveva timore perché bastava a far cessare l’incanto, ma vide zia Pottoi e richiuse istintivamente il portone per respingerla. La vecchia spingeva a sua volta.

«Mi vuole schiacciare come un ragno, donna Noè! Non vengo a farle del male.»

Noemi si ritirava fredda e sdegnosa, guardando la tela che aveva in mano.

«Che cosa volete?»

«Voglio parlare con la vossignoria, ma con calma, come da cristiano a cristiano», disse la vecchia, che s’accomodava i coralli sul collo bruciato e tremava, scarna e triste come uno scheletro.

«Donna Noemi, mi guardi! Non abbassi gli occhi. Son venuta per chiederle aiuto.»

«A me?»

«Sì, a lei, a vossignoria. Son tre mesi che le loro signorie non mi lasciano più metter piede qui. Hanno ragione. Ma stanotte ho sognato donna Maria Cristina; l’ho veduta accanto al mio letto, come venne quella volta che avevo preso l’estrema Unzione. Era bella, donna Maria Cristina, aveva il fazzoletto bianco come il fiore del giglio. Va’ da Noemi, – mi disse – Noemi ha il mio cuore, perché il cuore dei morti rimane ai vivi. Va’, Pottoi, – mi disse – vedrai che Noemi ti aiuterà. Queste proprie parole mi disse.»

Ferma accanto al portone, Noemi tentava di cucire ancora, con la testa curva sulla tela che rifletteva il color rosso del cielo sopra il monte.

«Ebbene, che volete?»

«Le dirò. Lei sa tutto. I ragazzi si voglion bene. Io dicevo: se si voglion bene perché impedirlo loro? E noi, da giovani non abbiamo amato? Ma il tempo passa, vossignoria; e il ragazzo diventa strano. Grixenda mia è ridotta a un filo. Egli non vuole che essa esca di casa, che vada a lavorare, e se la trova sulla soglia la fa rientrare, e se Grixenda si lamenta egli dice: "Per te io faccio morir le zie di dolore, zia Noemi specialmente". Non dice altro, perché è beneducato e buono, ma queste parole sono come il veleno che corrode senza far gridare.»

Diede un gran sospiro e prese un lembo del grembiale di Noemi arrotolandone la cocca fra le dita nere.

«Donna Noemi, vossignoria mia, lei ha il cuore di sua madre. A lei posso dirlo. Quando mio padre mi avvertì: se guardi ancora don Zame ti crepo la pupilla col pungolo, io ho chiuso gli occhi e don Zame da quel momento è stato morto per me. Ma Grixenda non è così: Grixenda non può chiudere gli occhi.»

Suo malgrado Noemi si sentiva turbata. La vecchia che arrotolava come una bimba la cocca del suo grembiale le dava tanta pena.

«La colpa è vostra», disse, grave. «Sapevate vecchia come siete come vanno a finire queste cose.»

«Sappiamo, sappiamo… e non sappiamo mai niente, vossignoria mia! Il cuore non è mai vecchio.»

«È vero, questo», ammise Noemi, ma con una voce che pareva le uscisse suo malgrado di bocca; ma subito corrugò le sopracciglia e sollevò gli occhi freddi beffardi fissando quelli della vecchia.

«Ebbene, che volete da me?»

«Che lei parli a don Giacinto; sì, che gli dica: lascia in pace Grixenda o sposala.»

«Io devo dirgli questo? E perché proprio io?», domandò Noemi, e poiché l’altra a sua volta la fissava senza rispondere, ebbe una penosa impressione: le parve che la vecchia «sapesse». Abbassò gli occhi e riprese, aspra e fredda: «Io non gli dirò nulla! Mettetevelo bene in mente: lo sapevate, chi era, lui, e siete stata una cattiva nonna a permettere che Grixenda badasse a uno non adatto per lei».

«Perché non adatto per lei? Un uomo libero è sempre adatto per una donna libera: basta ci sia l’amore. E vossignoria mia, si, farà questa carità di parlargli. Non è il pane che le chiedo, è più del pane; è la salvezza di una donna. E il ragazzo le darà ascolto, perché è buono e dice: non mi dispiace altro, solo che zia Noemi soffra per me… Ebbene, glielo confido: egli parla sempre di vossignoria, e le vuol bene. Grixenda è persino gelosa di vossignoria.»

Allora Noemi si mise a ridere, ma sentì le ginocchia tremarle e sentì nel cuore la bellezza luminosa del tramonto: era un mare di luce sparso d’isole d’oro, con un miraggio in fondo. Ella non aveva mai provato un attimo di ebbrezza simile.

Un attimo e il mondo aveva mutato aspetto. La vecchia la guardava, e nei suoi occhi vitrei la malizia brillava come la collana giovanile sul suo collo di scheletro.

«Cosa mi dice, dunque, donna Noemi? Me ne vado un po’ tranquilla? Sì, vero, mi aiuterà?»

«Andate pure», disse Noemi con voce mutata; ma la vecchia non se ne andava, profondendosi in ringraziamenti umili.

«La nostra casa misera è sempre stata accanto alla loro, come la serva accanto alla padrona. Non poteva durare, la nostra inimicizia! Zuannantoni mio piange, ogni volta che torno dall’orto; piange e dice: perché le dame mi hanno cacciato via? E prende la fisarmonica e viene a suonare qui dietro il muro. Dice che fa la serenata a donna Noemi. L’ha sentito vossignoria? E adesso tutto andrà bene.»

«Speriamo: tutto andrà bene», disse Noemi: ma non sapeva neanche lei che cosa dovesse andar bene. Sentiva un improvviso amore per tutti. «Dite a Zuannantoni che venga, stasera. Gli darò le pere rosse.»