La vecchia le afferrò la mano, gliela baciò, andò via piangendo: ella tornò al suo posto. Il cielo scolorito ad oriente, sopra il Monte ardeva ancora, come se tutto lo splendore del giorno si fosse raccolto lassù. Ella s’ostinava a cucire ma non vedeva né la tela né l’ago: solo quel grande chiarore, quel miraggio senza confini, profondo, infinito. Le sembrava di sentire la serenata del fanciullo, e versi d’amore passavano nell’aria ardente del crepuscolo. Di nuovo si rivedeva sul rozzo belvedere del prete, laggiù alla chiesa del Rimedio; nel cortile ardeva il falò e la festa ferveva. Ma a un tratto anche lei scendeva per unirsi alla catena delle donne danzanti; anche lei prendeva parte alla festa: era la più folle di tutte: era come Grixenda e come Natòlia e sentiva entro il suo cuore l’ardore, la dolcezza, la passione di tutte quelle donne unite assieme. Giacinto le stringeva la mano e la festa intorno, nel cortile, nel mondo, era per loro…
Ma a poco a poco si svegliò. Le parve che il fuoco si spegnesse e il sangue cessasse di batter violento nelle sue vene. Ebbe vergogna dei suoi sogni. Ricordò la promessa alla vecchia: «tutto andrà bene». Allora cercò le parole da dire al nipote per convincerlo a mettersi nella buona via ed a sposare Grixenda. Ch’essi sian felici! Ella li amava tutti e due, adesso, la donna perché col suo amore formava una parte stessa dell’uomo: che siano felici nella loro povertà e nel loro amore, nel loro viaggio verso una terra promessa. Ella li amava perché si sentiva in mezzo a loro, parte di loro, unita all’uomo per il suo amore, unita alla donna per il suo dolore. Li benediceva come una vecchia madre, ma si sentiva trasportata in mezzo a loro, attraverso la vita misteriosa, come Gesù fra i suoi genitori nella fuga in Egitto…
E come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché, di dolore ch’era gioia, di gioia ch’era dolore.
Ma qualcuno picchiò di nuovo, ed ella s’asciugò gli occhi con la tela e andò ad aprire. Un uomo entrò, chiudendo il portone.
Era l’usciere, un borghese magro col viso nero di barba non rasa da otto giorni: aveva in mano una carta lunga piegata in due. Sollevò il cappello duro verdognolo sul cranio calvo, guardò Noemi esitando a parlare.
«Donna Ester non c’è?»
«No.»
«Avrei… avrei da consegnarle questo. Ma posso farlo a lei», aggiunse rapido, scrivendo qualche riga col lapis in fondo alla carta e compitando le parole che scriveva.
«Con-se-gna-to – consegnato, in, in ma-no – mano della sorella nobile donna, donna No-e-mi – Noemi Pintor.»
Ella guardava rigida, tremando entro di sé. Cento domande le salivano alle labbra, ma non voleva mostrarsi curiosa e debole davanti a quell’uomo che tutti in paese temevano e disprezzavano.
A sua volta l’usciere esitò ancora prima di consegnarle la carta, finalmente si decise e andò via rapido.
Ella si mise a leggere, con la tela sul braccio, gli occhi ancora umidi di lagrime d’amore.
«In nome di Sua Maestà il Re…» La carta aveva qualcosa di misterioso e di terribile: pareva mandata da una potenza malefica.
Piano piano, a misura che leggeva e che capiva, Noemi credeva di sognare. Tornò a sedersi, rilesse meglio. Caterina Carta, di professione casalinga, domandava alla nobile Ester Pintor, entro cinque giorni dalla notificazione dell’atto di protesto, la restituzione di duemilaseicento lire comprese le spese della cambiale firmata da detta nobile Ester Pintor.
Sulle prime anche Noemi credette come Efix a un atto inconsulto di Ester. Un fugace rossore le colorì la fronte; come una fiamma che brilla un attimo e si spegne nella lontananza della notte oscura le salì dalla profondità della coscienza la certezza che anche lei avrebbe, pochi momenti prima, fatto qualunque follia per Giacinto. Poi silenzio, buio. Lei, sì, pochi momenti prima; ma Ester? Ester non «poteva» aver provato la sua follia, Ester non «poteva» aver rovinato la famiglia per amore di quell’avventuriero.
La verità le balenò allora sfolgorante, la fece balzare, correre di qua e di là inciampando, barcollando, come colpita da un male fisico.
Le sorelle la trovarono così.
Donna Ester prese la carta, con la mano fuor dello scialle; donna Ruth, poiché era già buio, accese la lucerna.
Sedettero tutte e tre sulla panca e Noemi, ritornata calma e crudele, rilesse a voce alta la carta. I visi delle sorelle, protesi sul foglio, lucevano di sudore d’angoscia: ma Noemi sollevò gli occhi e disse:
«Se tu, Ester, non hai firmato niente non dobbiamo pagar niente. È chiaro, perché desolarsi?».
«Egli andrà in carcere.»
«Peggio per lui!»
«E tu, Noemi, tu parli così? Si può mandare un cristiano in prigione?»
«Che cosa vuoi fare dunque?»
«Pagare.»
«E poi andare a chieder l’elemosina?»
«Anche Gesù ha chiesto l’elemosina.»
«Ma Gesù castiga anche, castiga i peccatori, i fraudolenti, i falsari…»
«Nell’altro mondo, Noemi!»
Donna Ruth taceva, mentre le sorelle discutevano, ma sudava, appoggiata alla spalliera del sedile, con le mani abbandonate come morte lungo i fianchi. Per la prima volta in vita sua provava un sentimento strano; il bisogno di muoversi, di fare «qualche cosa» per aiutare la famiglia.
«Ah», disse donna Ester, alzandosi e incrociandosi lo scialle sul petto, «del resto bisogna esser pazienti e prudenti. Andrò da Kallina e la pregherò di pazientare.»
«Tu, sorella mia? Tu in casa dell’usuraia? Tu, donna Ester Pintor?»
Noemi la tirava per il lembo dello scialle; ma donna Ester, nonostante predicasse pazienza e prudenza, ebbe uno scatto.
«Donna Ester un corno! Il bisogno, tu lo sai, sorella mia, rende pari tutti.»
E andò.
Allora Noemi fu riassalita da un impeto di umiliazione e di sdegno: la figura di Efix le balzò davanti come quella della vittima rassegnata al sacrifizio, ed ella corse nel cortile e uscì sul portone aspettando che passasse qualcuno per pregarlo d’andare a chiamare il servo.
«Lui, lui è la causa di tutto! Lui aveva promesso di sorvegliare Giacinto e di proteggerci contro di lui…»
Nessuno passava; tutto era silenzio e anche dentro casa donna Ruth pareva morta. Noemi non dimenticò mai quel momento d’attesa, nell’ultimo crepuscolo che le pareva il crepuscolo stesso della sua vita. Ferma sulle pietre rotte della soglia si protendeva in avanti e le sembrava di aspettare un essere misterioso, salvatore e vendicatore assieme.
Un passo risuonò, un po’ lento, un po’ pesante: una forma apparve giù nella strada: saliva, diventava grande, campeggiava gigantesca sullo sfondo incolore dell’orizzonte: era nera ma come un filo di fuoco scintillava sul suo petto, dalla parte del cuore.
Fu davanti a Noemi e accorgendosi dell’agitazione di lei si fermò, mentr’ella appoggiava forte la mano aperta al muro per non cadere tanto il desiderio e l’orrore di rivolgersi al passante la turbavano.
Ma egli domandò:
«Noemi, che c’è?».
Ed ella sentì il suo cuore fondersi, chiamare aiuto.
«Predu, fammi un piacere. Cercami qualcuno che possa andare a chiamare Efix al poderetto.»
«Andrò io, Noemi.»
«Tu? Tu? Tu… no.»
«Perché no?», egli stridette. «Hai paura che ti rubi le angurie?»
Ella continuava a balbettare, incosciente: «Tu no… tu no… tu no…».
Don Predu indovinava il dramma che si svolgeva là dentro.
Non sapeva perché, da qualche tempo, dalla sera che aveva portato il cestino, dalla sera in cui Giacinto gli aveva detto: «tu accumuli le tue monete come le tue fave, per darle ai porci». Sentiva un vuoto dentro, un male strano, quasi lo straniero gli avesse comunicato il suo, e pensando alle cugine provava una pietà insolita. Vide che Noemi tremava e anche lui appoggiò la mano al muro accanto a quella di lei. I loro volti eran vicini; quello di lui aveva un odore maschio, di sudore, di pelle bruciata dal sole, di vino e di tabacco, quello di lei un profumo di chiuso, di spigo e di lagrime.