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«Noemi», disse rozzo e timido, levandosi il cappello e poi rimettendoselo, «se avete bisogno di me ditemelo. Che è successo?»

Noemi non rispose: non poteva parlare.

«Che è successo?», egli ripeté forte.

«Siamo rovinate, Predu…», ella disse infine, e le sembrava di parlare contro la sua volontà. «Siamo morte. Giacinto ha falsificato la firma di Ester… E l’usuraia ha protestato la cambiale…»

«Ah, boia!», gridò don Predu, dando un pugno al muro.

Noemi ebbe paura di quel grido e il sentimento del decoro la richiamò a sé. Le parve che i vicini si affacciassero ad ascoltare la sua miseria.

«Vieni dentro, Predu: ti racconterò tutto.»

Ed egli entrò nella casa di cui da venti anni non varcava la soglia.

La lucerna ardeva sul sedile antico, e pareva che la fiammella facesse pietosa compagnia a donna Ruth ancora seduta immobile con la testa appoggiata alla spalliera e le mani abbandonate una qua una là con le nocche sul legno. Metà dei suo viso era illuminato, cereo, metà era in ombra, nero. Gli occhi socchiusi guardavan tuttavia in alto, loschi come nello sforzo di fissare un punto solo lontano.

Appena la vide don Predu trasalì, fermandosi di botto. E dal movimento di lui Noemi comprese la verità. Guardò lui spaventata, poi guardò la sorella e corse a soccorrerla.

«Ruth, Ruth?», chiamò sottovoce, curva su lei, stringendole gli omeri.

La testa di donna Ruth si reclinò prima di qua, poi di là, poi tutto il suo corpo parve protendersi in avanti e curvarsi ad ascoltar la voce della terra che la richiamava a sé.

Il lamento della fisarmonica di Zuannantoni giunse in fondo al caos del dolore di Noemi, come una luce lontana.

Il ragazzo cantava, accompagnandosi, e la sua voce acerba d’una melanconia inesprimibile riempiva la notte di dolcezza e di chiarore. Noemi ancora inginocchiata presso il sedile ov’era steso il cadavere di donna Ruth, sollevò il viso guardandosi attorno. Era sola. Don Predu era corso a richiamare donna Ester. Ella ricordò le parole della vecchia «Zuannantoni viene a farle la serenata» e un mugolìo di dolore uscì dalle sue labbra verdastre: eran grida, gemiti, lamenti che si confondevano con le note dello strumento e col canto del fanciullo come l’ansito di un ferito abbandonato in un bosco col gorgheggiare dell’usignolo.

Ma d’improvviso tutto tacque: poi s’udirono passi, risuonarono voci; il cortile fu pieno di gente: Noemi vide accanto a sé il ragazzo col viso pallido e i grandi occhi spalancati, che si stringeva al petto la fisarmonica come per difendersi da qualche assalto, e gli disse all’orecchio:

«Corri; va’ a chiamare Efix».

Capitolo decimo

Donna Ruth se n’era andata, e ombre e silenzio circondavano di nuovo la casa.

Efix, seduto sullo scalino, con un gelsomino in mano e la testa appoggiata al muro, aspettava il ritorno di Giacinto con un vago sentimento di paura.

Giacinto non tornava. Senza dubbio aveva saputo del disastro e a sua volta esitava a ritornare. Dov’era? Ancora ad Oliena, o a Nuoro o più lontano?

Efix cercava di raccogliere le sue idee, i ricordi, le impressioni di quei tre giorni di terrore. Ecco, gli sembrava d’essere ancora seduto davanti alla sua capanna ad ascoltare l’usignolo che cantava laggiù tra gli ontani: sembrava la voce del fiume, quell’onda d’armonia che si spandeva a rinfrescare la notte, ed era così canora e straziante che gli stessi spiriti notturni si rifugiavano sull’orlo della collina protesi immobili ad ascoltarlo. Efix si sentiva portato via come da un impeto di vento: ricordi e speranze lo sollevavano. Aspettava Giacinto, e Giacinto veniva con sue notizie fantastiche: aveva trovato un posto, aveva tenuto la sua promessa d’essere la consolazione delle vecchie zie. E don Predu aveva domandato Noemi in moglie…

Ma invece di Giacinto arrivò Zuannantoni con qualche cosa di nero sul petto come un avvoltoio morto. Da quel momento Efix aveva l’impressione di esser caduto sotto un urto di febbre delirante. Che incubo, lo stradone biancastro nella notte, e la voce della fisarmonica che scendeva dalla collina e faceva tacere quella dell’usignolo! Tutti i folletti e i mostri s’erano scossi e danzavano nell’ombra, inseguendolo e circondandolo.

Ed ecco adesso egli aspettava di nuovo: ma Giacinto aveva anche lui preso un aspetto mostruoso, come se gli spiriti notturni l’avessero portato via nel loro regno misterioso ed egli ritornasse di là orribilmente deformato.

Meglio non tornasse mai.

Dalla cucina usciva un po’ di barlume che illuminava una parte del cortile; s’udiva dentro qualche timido rumore; Noemi e donna Ester si muovevano di là, ma pareva avessero paura anche loro, paura di farsi sentire a vivere.

Ma qualcuno spinse il portone e tutti e tre, le donne e il servo, balzarono come svegliandosi da quel sogno di morte.

Era ancora la vecchia Pottoi che veniva a domandare notizie di Giacinto: si avanzò come un’ombra, ma doveva aver lasciato fuori qualcuno perché si volse a guardare, mentre le dame si ritiravano sdegnose.

«Da cinque giorni il ragazzo è assente e non si sa dov’è! Dillo tu; anima mia, Efix, dov’è.»

«Come posso dirvelo se non lo so neppur io?»

«Dimmelo, dimmelo», ella insisté, curvandosi su Efix e toccandosi le collane quasi volesse levarsele e offrirgliele. «l’avete mandato via? l’ha mandato via donna Noemi?… Dimmelo, tu lo sai. Grixenda mia muore…»

Si curvava, si curvava, e sul suo profilo nero come su quello di una montagna Efix vedeva brillare una stella.

«Che cosa posso dirti, anima mia?»

«Ma nulla, vecchia!», egli disse a voce alta. «Vi giuro che non lo so! Ma appena sarà qui vi avvertirò…»

«Tu sei buono, Efix! Dio ti pagherà. Vieni là fuori… Confortala…»

Gli afferrò la mano e lo attirò fuori. Grixenda stava appoggiata al muro e piangeva come contro una prigione che racchiudesse tutto il suo bene e dove lei non poteva entrare.

«Ebbene, che hai? Tornerà, certo.»

«Lo senti, anima mia?», disse la vecchia, strappando la ragazza dal muro. «Tornerà! Non è andato via per sempre, no!»

«Tornerà, sì, ragazza!»

Grixenda gli prese la mano e gliela baciò singhiozzando. Egli sentì le labbra di lei bagnate di lagrime lasciargli sulle dita come l’impronta di un fiore umido di rugiada: e trasalì e gli sembrò che l’incubo in cui da tre giorni era caduto si sciogliesse.

«Tornerà», ripeté a voce alta. «E tutto andrà bene. Metterà giudizio, si pentirà, sarete contenti e tutto andrà bene…»

Le due donne se ne andarono confortate; egli rientrò e vide Noemi sorgergli davanti come un’ombra nera ferma palpabile.

«Efix, ho sentito. Efix, non metterti in mente di far morire anche noi. Giacinto non deve rientrare in questa casa.»

Efix teneva ancora il gelsomino in mano e il fiorellino tremò nel buio, come di un dolore proprio.

«Farle morire… io! Perché?»

«Efix, ho sentito!», ella ripeté con voce monotona: ma d’improvviso la sua figura balzò, l’ombra parve diventare alta, enorme. Efix la sentì sopra di sé come una tigre.

«Efix, hai capito? Egli non deve rientrar qui, e neppure in paese! Tu, tu sei la cagione di tutto. Tu l’hai lasciato venire, tu dicevi che ci avresti difeso da lui… Tu…»

Egli si tolse la berretta come un penitente.

«Donna Noemi, mi perdoni! Io credevo di far del bene… pensavo: quando non ci sarò più io, esse almeno avranno chi le difenderà…»

«Tu? Tu? Tu sei un servo e basta! Tu non ci perdoni d’esser nobili e vuoi vederci andare a chiedere l’elemosina con la tua bisaccia. Ma i corvi ti divoreranno prima gli occhi. Due di noi le hai vedute andar via, di qui… ma le altre due no. E tu sarai sempre il servo e noi le padrone…»