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Egli si fece il segno della croce come davanti a una indemoniata e andò a prendere la sua bisaccia per fuggire in capo al mondo; ma donna Ester lo afferrò per la mano, e Noemi, che lo aveva seguito, cadde sulla panca come donna Ruth, con gli occhi chiusi e il viso violetto.

Egli tornò fuori, sullo scalino, e rimase tutta la notte immobile col viso fra le mani.

Prima dell’alba s’avviò in cerca di Giacinto. E su e su, per lo stradone dapprima grigio, poi bianco, poi roseo: l’aurora pareva sorgere dalla valle come un fumo rosso inondando le cime fantastiche dell’orizzonte. Monte Corrasi, Monte Uddè, Bella Vista, Sa Bardia, Santu Juanne Monte Nou sorgevano dalla conca luminosa come i petali di un immenso fiore aperto al mattino; e il cielo stesso pareva curvarsi pallido e commosso su tanta bellezza.

Ma col sorgere del sole l’incanto svanì; i falchi passavano stridendo con le ali scintillanti come coltelli, l’Orthobene stese il suo profilo di città nuragica di fronte ai baluardi bianchi di Oliena; e fra gli uni e gli altri apparve all’orizzonte la cattedrale di Nuoro.

Efix camminava col velo della febbre davanti agli occhi. Gli pareva d’esser morto e di andare, di andare come un’anima in pena che deve raggiungere ancora il suo destino eterno; di tanto in tanto però un senso di ribellione lo costringeva a fermarsi, a sedersi sul paracarro ed a guardare lontano. La strada in salita tra la valle e la montagna, fra rocce olivi e fichi d’India tutti d’uno stesso grigio, gli sembrava, sì, quella del suo calvario ma anche una strada che poteva condurre a un luogo di libertà. Ecco, pensava guardando il profilo dell’Orthobene, lassù è una città di granito, con castelli forti silenziosi; perché non mi rifugio lassù solo, e non mi nutrisco di erbe, di carne rubata, libero come i banditi?

Ma da un punto aperto della valle vide il Redentore sopra la roccia con la grande croce che pareva unisse il cielo azzurro alla terra grigia, e s’inginocchiò a testa bassa, vergognoso delle sue fantasticherie.

Giacinto era ad Oliena: sapeva del disastro e della morte di zia Ruth e aveva paura a tornare laggiù. Viveva con le poche lire guadagnate dalla senseria del vino acquistato per conto del Milese, ma non sapeva che avrebbe fatto poi: anche lui guardava lontano, dal finestrino della sua stanzetta sopra un cortiletto in pendìo in fondo al quale come da un buco si vedeva la grande vallata d’Isporosile con la cattedrale di Nuoro fra due ciglioni, in alto, sul cielo venato di rosa.

Ma neppure a Nuoro si decideva ad andare: provava un senso di attesa, di qualche cosa che ancora doveva succedere, e intanto girovagava per il paese, si ubriacava di sole davanti alla porta della chiesa. Il villaggio bianco sotto i monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d’aria, ardeva come una cava di calce: ma ogni tanto una marea di vento lo rinfrescava e i noci e i peschi negli orti mormoravano tra il fruscìo dell’acqua e degli uccelli.

Giacinto guardava le donne che andavano a messa, composte, rigide, coi visi quadrati, pallidi nella cornice dei capelli lucenti come raso nero, i malleoli nudi di cerbiatta, le belle scarpette fiorite: sedute sul pavimento della chiesa, coi corsetti rossi, quasi del tutto coperte dai fazzoletti ricamati, davano l’idea di un campo di fiori. E tutta la chiesa era piena di nastri e di idoli; santi piccoli e neri con gli occhi di perla, santi grossi e deformi, più mostri che idoli.

Dopo le funzioni sacre la gente se ne andava a casa e Giacinto se ne tornava al suo rifugio passando davanti a una chiesa in rovina che gli ricordava la casa laggiù delle sue zie. Pensava a zia Noemi più che a Grixenda e aveva voglia di piangere, di tornare laggiù, di sedersi accanto a lei che cuciva nel cortile e posarle la testa sulle ginocchia, sotto la tela. Ma poi anche lui si vergognava del suo sogno, e tornava al finestrino della stanzetta solitaria a guardare la cattedrale di Nuoro: lassù forse era la sua salvezza.

Nidi di rondine che col tempo avevano preso il colore della pietra correvano come una decorazione fra il tetto e i finestrini della casetta: ogni nido racchiudeva un mucchio di uccellini; di tanto in tanto una testina lucida e tonda come una nacchera ne usciva fuori, sgusciava una rondine, poi un’altra, dieci, venti, ed era tutto uno svolazzare di piccole croci nere, uno stridìo melanconico intorno al finestrino di Giacinto.

Egli tentava di prenderne qualcuna, tanto gli passavan rasenti al viso: e stava immobile in agguato e così l’ora passava. Ma un giorno vide salir su per il cortiletto la figura stanca di Efix e si accorse ch’era appunto lui che aspettava.

Arrivato sotto il finestrino il servo guardò in su senza parlare; non poteva quasi aprir bocca, ma scosse la testa verso la strada, accennando a Giacinto di seguirlo, e Giacinto lo seguì.

Andarono dietro la chiesa, si appoggiarono al muro in rovina, davanti al grande paesaggio pieno di luce.

«Ebbene?», domandò Efix con voce tremante.

Questa parola fece ridere Giacinto: non seppe perché, ma davanti alla miseria del servo si sentiva tutto ad un tratto forte e malvagio.

«Lo domandi a me "ebbene?" Lo domando io a te. Che c’è di nuovo che ti spinge alle mie calcagne? Sei venuto a comprare il vino per le nozze di zia Noemi?»

«Rispetta le tue zie! Tu non le rivedrai più. Donna Ruth è morta.»

Giacinto allora abbassò il viso e si guardò le mani.

«Vedi? Vedi? Neanche una parola di dolore, dici! Neanche una lagrima! Ed è morta per te, miserabile! È morta di dolore per causa tua.»

La spalla di Giacinto cominciò a tremare; tremò anche il suo labbro inferiore, ma egli se lo morsicò rabbiosamente, e strinse e riaprì i pugni quasi volesse prendere e buttar via qualche cosa.

«Che ho fatto?», domandò con insolenza.

Allora Efix lo guardò di sotto in su con dolore e disprezzo.

«E lo domandi anche? E perché sei ancora qui se non sai quello che hai fatto? Io non ti dico nulla, non ti domando nulla perché non hai nulla. Neanche cuore hai! Solo son venuto a dirti che non devi più rimetter piede in casa loro!»

«Potevi risparmiarti questa fatica! Chi pensa a ritornare?»

«Così rispondi? Di’ almeno cosa intendi di fare. Le hai ridotte all’elemosina, le tue disgraziate zie. Che intendi di fare?»

«Pagherò tutto, io.»

«Tu? Con promesse! Ah, ma adesso basta, perdio! Adesso non inganni più nessuno, sai! È tempo di finirla. E smetti la finzione perché tanto non abbiamo più nulla da darti. Hai inteso, miserabile?»

Allora Giacinto lo guardò a sua volta da sotto in su, maligno e sorpreso, poi sollevò di nuovo le braccia e parve alzarsi da terra scuotendosi tutto contro Efix come un’aquila sopra la sua preda. I suoi occhi e i suoi denti scintillarono al tramonto, e il suo viso diventò feroce.

«Di’, non ti vergogni?», domandò sottovoce, afferrandogli le braccia e ficcandogli gli occhi negli occhi.

Ed Efix ebbe l’impressione che quello sguardo gli bruciasse le pupille: un rombo gli risuonò entro le orecchie.

«Non ti vergogni? Miserabile, tu! Io posso aver errato, ma son giovane e posso imparare. Perché vieni a tormentarmi? Lo sapevo, che saresti venuto, e ti aspettavo. Tu, tu almeno devi comprendere e non condannarmi. Hai capito? Non rispondi adesso? Ah, tremi adesso, assassino? Va’, che mi vergogno di averti toccato.»

Gli diede uno spintone e s’avviò per andarsene. Efix lo rincorse, gli afferrò la mano.

«Aspetta!»

Stettero un momento in silenzio, come ascoltando una voce lontana.

«Giacinto! Devi dirmi una cosa sola. Giacinto! Ti parlo come fossi un moribondo. Giacì! Dimmelo per l’anima di tua madre! Come hai saputo?»

«Che cosa t’importa?»

«Dimmelo, dimmelo, Giacì! Per l’anima di tua madre.»

Giacinto non dimenticò mai gli occhi di Efix in quel momento; occhi che pareva implorassero dalla profondità di un abisso, mentre la mano che stringeva la sua lo tirava giù verso terra e il corpo del servo si piegava e cadeva lentamente.