Ma tacque.
Efix gli lasciò la mano; cadde piegato su se stesso brancicando la terra e cominciò a tossire e a vomitare sangue: il suo viso era nero, decomposto. Giacinto credette che morisse. Lo tirò su, lo appoggiò con le spalle al muro, si sollevò e stette a guardarlo dall’alto.
«Dimmelo! Dimmelo!», rantolava Efix, sollevando le palme insanguinate. «È stata tua madre? Dimmi almeno che non è stata lei.»
Giacinto fece cenno di no.
Allora Efix parve calmarsi.
«È vero», disse sottovoce. «l’ho ucciso io, tuo nonno, sì. Mille volte avrei confessato per la strada, in chiesa, ma non l’ho fatto per loro. Se mancavo io, chi le assisteva? Ma è stato per disgrazia, Giacì! Questo te lo giuro. Io sapevo che tua madre voleva fuggire, e la compativo perché le volevo bene: questo è stato il mio primo delitto. Ho sollevato gli occhi a lei, io verme, io servo. Allora lei ha profittato del mio affetto, s’è servita di me, per fuggire… E «lui», il padre, indovinò tutto. E una sera voleva uccidermi. Mi son difeso; con una pietra gli ho percosso la testa. Egli si aggirò un po’ intorno a se stesso come una trottola, con la mano sulla nuca, e cadde, lontano dal punto ove mi aveva aggredito… Io credevo lo facesse apposta… Attesi… attesi… che si sollevasse… Poi cominciai a sudare… ma non potevo muovermi… Credevo sempre fosse una finzione… E guardavo… guardavo… così passò molto tempo. Finalmente mi accostai… Giacì? Giacì?» ripeté due volte Efix, con voce bassa e ansante, come se chiamasse ancora la sua vittima «lo chiamai… Non rispondeva. E non ho potuto toccarlo… E son fuggito; e poi son tornato… Tre volte così: mai ho potuto toccarlo. Avevo paura…»
Giacinto ascoltava alto, nero sul cielo rosso: la sua spalla tremava ed Efix, dal basso, credeva di veder tremolare tutto l’orizzonte.
Ma d’improvviso Giacinto se ne andò senza dir niente, ed Efix vide davanti a sé lo spazio libero, la vallata rosea solcata d’ombre, su, su, fino alle colline di Nuoro nere contro il tramonto.
Un silenzio infinito regnava. Solo qualche grido di rondine pareva uscir dai muri in rovina, e un trotto di cavallo risuonò lontano, sempre più lontano.
«È Giacinto», pensò Efix, «ha preso un cavallo e torna laggiù e rivela tutto alle zie e le maltratta.»
Ascoltò. Gli sembrava che il passo del cavallo risuonasse sul muro, sopra di lui; e poi più basso, sul suo corpo, sopra il suo cuore.
«Se n’è andato senza dirmi niente! Ma io, quando mi raccontò la sua storia col capitano non ho fatto così!»
d’un colpo balzò su, come se qualcosa lo pungesse. Si scosse la polvere dal vestito e corse via, dietro la chiesa, giù allo stradone, incalzato dal pensiero che Giacinto tornasse a casa e maltrattasse le donne.
Ma quando arrivò la casa era ricaduta nella sua pace di morte.
Donna Ester lavava il grano, prima di mandarlo alla mola, immergendolo entro un vaglio nell’acqua d’un paiuolo: le pietruzze rimanevano tutte in un angolo, ed ella dava un balzo al vaglio per cacciarle via tutte assieme. Era molto polveroso e pietroso, il grano; era l’ultimo del sacco che loro rimaneva.
Ma ciò che impressionò Efix fu di vedere donna Noemi col fazzoletto bianco di donna Ruth sul capo, in segno di lutto.
Era invecchiata, bianca in viso come il lenzuolo rattoppato che ella rattoppava ancora.
Egli sedette sulla panca, davanti a loro. Sembravano tutte e tre tranquilli come se nulla fosse accaduto.
«Se ne va o no?», domandò Noemi.
«Se ne andrà.»
Ella lo guardò fisso: lo vide così grigio e scarno che ne ebbe pietà e non parlò più.
E per otto giorni vissero tutti e tre nella speranza angosciosa che Giacinto tornasse e rimediasse al malfatto, che Giacinto se ne andasse e non si facesse rivedere mai più!
Capitolo undicesimo
Un giorno in autunno Efix andò in casa di don Predu.
c’erano solo le serve, una grassa e anziana che si dava le arie imponenti della sorella del Rettore, l’altra giovane e lesta benché afflitta dalle febbri di malaria; ed egli dovette attendere nella stanza terrena, divagandosi a guardare nel vasto cortile i graticoli di canna coperti di fichi verdi e neri, d’una violetta e di pomidoro spaccati velati di sale. Tutta la casa spirava pace e benessere: sui muri chiari tremolava l’ombra dei palmizi e tra il fogliame dorato dei melagrani le frutta rosse spaccate mostravano i grani perlati come denti di bambino. Efix pensava alla casa desolata delle sue povere padrone, a Noemi che vi si consumava dentro come un fiore al buio…
«Come sei dimagrito», gli disse la serva anziana, che filava seduta presso la porta, «hai le febbri?»
«Mi rosicchiano le ossa, mi scarnificano, sia per l’amor di Dio», egli sospirò, guardandosi le mani nere tremanti.
«Le tue padrone stanno bene? Non si vedono più neppure in chiesa.»
«Neppure in chiesa vanno, dopo la disgrazia.»
«E don Giacinto non torna?»
«Non torna. Ha un posto a Nuoro.»
«Sì, il mio padrone l’ha veduto, ultimamente. Ma pare non sia un posto molto di lusso.»
«Basta vivere, Stefana!», ammonì Efix, senza sollevare la testa. «Basta vivere senza peccare.»
«Questo è difficile, anima mia! Come guadare il fiume senza bagnarsi?»
«Passando sul ponte», disse l’altra serva dal cortile curva a sbucciare un mucchio di mandorle; poi domandò: «E Grixenda, allora? Anche lei porta il lutto e non esce più».
Efix non rispose.
«E don Predu, adesso, viene da voi?»
«Io non lo so: io sono sempre laggiù, al poderetto.»
Le donne ardevano di curiosità, perché da qualche tempo il padrone mandava regali alle cugine e pur beffandosi di loro non permetteva che altri ne parlasse male in sua presenza; ma Efix non era disposto alle confidenze. Don Predu l’aveva mandato a chiamare, ed egli, ed egli era lì per attenderlo non per chiacchierare. La febbre e la debolezza gli davano un ronzìo alle orecchie; sentiva come il mormorare del fiume nella notte e voci lontane, e aveva dentro la testa tutto un mondo suo ov’egli viveva distaccato dal mondo reale.
Non gl’importava più nulla di Giacinto, né di Grixenda e neppure, quasi, delle padrone; tutto gli sembrava lontano, sempre più lontano, come se egli si fosse imbarcato e dal mare grigio e torbido vedesse dileguarsi la terra all’orizzonte.
Ma ecco don Predu che rientra: è meno grasso di prima, come vuotatosi alquanto. La catena d’oro pende un poco sullo stomaco ansante.
Efix s’alzò e non voleva più rimettersi a sedere.
«Bisogna che vada», disse accennando fuori, come uno che ha da camminare, da andare lontano.
«Tanti affari hai? O vai a qualche festa?»
L’ironia di don Predu non lo pungeva più; tuttavia l’accenno alla festa lo scosse.
«Sì, voglio andare alla festa di San Cosimo e San Damiano.»
«Ebbene, andrai! Suppongo che non parti subito. Siedi: ho da farti una domanda. Stefana, vino!»
Efix però respinse il bicchiere con un gesto di orrore. Mai più bere, mai più vizi. Da due mesi digiunava e talvolta quando aveva sete non beveva per penitenza. Sedette rassegnato tornando a guardarsi le mani; e don Predu, mentre vigilava verso il cortile perché le serve non origliassero, gli domandò a mezza voce:
«Dimmi come vanno gli affari delle mie cugine».
Efix sollevò, riabbassò tosto gli occhi; un rossore fosco gli colorì il viso che pareva arso scarnificato con la sola pelle aderente al teschio.
«Le mie padrone non hanno più confidenza in me e non mi dicono più tutti i loro affari. È giusto. A che dirmeli? Io sono il servo.»
«Corfu è mazza a conca», pagarti però non ti pagano! Di quest’affare almeno dovrebbero intrattenerti. Quanto ti devono?»