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«Non parliamone, don Predu mio! Non mi mortifichi.»

«Ti mortifichi pure, babbeo! Ebbene senti. Anch’io vado qualche volta da quelle donne ma non è possibile cavar loro nulla di corpo. Ester, forse, parlerebbe; ma c’è Noemi dura come una suola. La prima sera, quando accadde la disgrazia di Ruth e io passavo là per caso, solo quella sera si confidò. Sfido, perdio, era l’ora della disperazione. Ma dopo ritornò ostile: quando vado là mi accoglie bene, ma di tanto in tanto mi guarda torva, come sia io la causa dei loro malanni. E se Ester apre la bocca per parlare, ella la fissa così terribile che le toglie la parola di bocca.»

«Così con me», disse Efix. «Preciso così.»

E provò quasi un senso di sollievo, perché il ricordo degli occhi di Noemi lo perseguitava peggio che il suo rimorso antico.

«Adesso, ascoltami. Visto che da loro non si può ricavare niente, ho interrogato Kallina. Ma anche lei, malanno l’impicchi, tace. Sa fare i suoi affari, quella dannata: finge di credere che Ester ha veramente firmata la cambiale di Giacinto e solo dice che vuole il fatto suo. So che tu ed Ester siete andati da lei per cercare di aggiustare le cose e che Kallina ha rinnovato per tre mesi la cambiale gonfia delle spese di protesto e di interessi più forti, e ha preso ipoteca sul poderetto e sulla casa, fune che la strangoli; sì, va bene; ma e adesso, in ottobre, come farete?»

«Non lo so: non mi dicono nulla.»

«So che Ester gira in cerca di denari: ha un bel girare; le cadranno gli ultimi denti e non avrà trovato. So che sarebbe disposta anche a vendere, ma non a me.»

Efix guardava le sue dita e taceva; ma don Predu, irritato per questa indifferenza, gli batté le mani sulle ginocchia.

«Che pensi, santo di legno? Ohè, di’?»

«Ebbene, le dirò la verità. Io spero che Giacinto riesca a pagare.»

Allora don Predu si riversò ridendo sulla sedia, col petto gonfio, i denti scintillanti fra le labbra carnose. Anche le sue dita intrecciate alla catena d’oro sul petto parvero ridere.

Efix lo guardava spaurito, con gli occhi pieni di una angoscia da bestia ferita.

«Ma se quello muore di fame! l’ho veduto l’altro giorno. Sembrava un pezzente, con le scarpe rotte. s’ha venduto anche la bicicletta, non ti dico altro!»

«No, dica! Ha rubato?»

«Rubato? Sei pazzo? Adesso lo calunni anche, quel fiorellino, quell’angelo dipinto. E cosa ruba? Non è buono neanche a quello.»

«E… cosa dice? Tornerà?»

«Se gli passa un’idea simile in mente gli rompo i garetti» disse don Predu, oscurandosi in viso. Ed Efix ebbe a un tratto l’impressione che finalmente le sue disgraziate padrone avessero trovato un appoggio, un difensore più valido di lui. Ah, sia lodato Dio: Egli non abbandona le sue creature. Allora le sue antiche speranze rifiorirono all’improvviso; che don Predu sposasse Noemi, che la casa delle sue padrone risorgesse dalle sue rovine. Ma la sua gioia si spense subito, d’un tratto, come s’era accesa, e di nuovo egli si trovò nel suo deserto, nel suo mare, nel suo viaggio misterioso e terribile verso il castigo divino. Tutte le grandezze della terra, anche se toccavano a lui, anche se egli diventava re, anche se avesse la potenza di render felici tutti gli uomini del mondo, non bastavano a cancellare il suo delitto, a liberarlo dall’inferno. Come rallegrarsi dunque? E tornò a guardarsi le mani per nasconder l’idea fissa ferma nelle sue pupille. Don Predu riprese:

«Giacinto non tornerà e tanto meno pagherà, te lo garantisco io. Ma ricordati quello che ti dissi mille volte; il poderetto lo voglio io. Pago tutto, io: così vi resta la casa. Cerca tu di convincerle, quelle teste di legno. Io ti tengo al mio servizio».

«Perché non parla vossignoria con loro? A me non danno ascolto.»

«E a me sì, forse? Ho tentato, di parlarne, ma come col muro. Tu devi convincerle, tu», disse l’uomo con forza, battendogli di nuovo la mano sul ginocchio. «Se è vero che vuoi il loro bene l’unico scampo è questo. Tu «devi», è il tuo dovere di aprir loro le pupille, se loro son cieche. «Devi», intendi, o no? Hai il verme nelle orecchie?»

Infatti Efix aveva preso una fisionomia chiusa, da sordo. «Devi»?

Minacciava, don Predu? Sapeva qualche cosa, don Predu? A lui non importava nulla, non aveva paura che dell’inferno: tuttavia pensava che forse don Predu aveva ragione.

«Come devo fare?»

«Devi mostrarti uomo, una volta tanto. Devi dir loro che se non vogliono pagarti in denari ti paghino almeno in riconoscenza. Se il poderetto va in mani di un altro padrone tu vieni cacciato via come un cane. Allora, sì, così Dio mi assista, andrai alle feste, coi mendicanti, però!»

Efix trasalì: era quello il suo sogno di penitenza. Si alzò e disse:

«Farò di tutto. Ma l’unica cosa…».

«l’unica cosa?», domandò l’uomo afferrandogli la manica. «E siedi, diavolo, e bevi. L’unica cosa?»

Efix si lasciò ricadere sulla sedia; tremava e sudava e gli pareva di svenire.

«Sarebbe che vossignoria sposasse donna Noemi.»

E don Predu si gonfiò nuovamente di riso. Rideva, ma teneva fermo Efix, quasi per impedirgli di andarsene.

«Come sei divertente, diavolo! Ti tengo con me tutta la vita, così mi svaghi quando sono di malumore! Ti faccio sposare Stefana. È un po’ grassa per te, forse, ma non è pericolosa, perché i trent’anni li ha passati da un pezzo…»

«Stefana, Stefana», gridò, sempre tenendolo fermo e volgendo il viso ridente verso la porta, «senti, c’è qui un pretendente.»

La donna s’affacciò, nera, col ventre gonfio, il seno gonfio e il viso severo come quello d’una dama. Efix la guardò un attimo, supplichevole.

«Don Predu ha voglia di ridere.»

«Brutto segno, quando egli ha voglia di ridere: altri devono piangere», disse la donna, sfidando lo sguardo del padrone: e dietro di lei sorrideva, pallida enigmatica, con la lunga bocca serrata e come fermata da due fossette, Pacciana l’altra serva.

«Io ti dico che tu sposerai Efix, Stefana. Adesso dici di no, ma poi dirai di sì. Che c’è da ridere?»

«Il riso sardonico!», imprecò dietro Pacciana, a voce bassa. E urtò Stefana per incitarla a rispondere male al padrone. Ma la donna era troppo dignitosa per proseguire nello scherzo; e non aprì bocca finché il padrone ed Efix non uscirono assieme.

Allora le due serve cominciarono a parlar male delle cugine del padrone.

«Quando vado là, col regalo entro il cestino, mi accolgono come se vada a chieder loro l’elemosina. E invece la porto loro, io! Non vedi che viso da affamato ha Efix? Da vent’anni non lo pagano e adesso non gli danno neppure da mangiare. Eppure, hai sentito il nostro padrone come s’inalbera quando gli si accenna alle sue cugine?»

«I tempi cambiano: anche i puledri invecchiano», sentenziò Stefana; ma entrambe sentivano qualche cosa di nuovo, di grave, pendere sul loro destino di serve senza padrona.

Intanto don Predu accompagnava Efix, su, su, per la straducola lavata dalle ultime piogge.

L’erba rimaneva lungo i muri delle case deserte. Un silenzio dolce profondo avvolgeva tutte le cose; nuvole gialle si affacciavano stupite sul Monte umido, e dall’alto del paese, davanti al portone delle dame, si vedeva la pianura coperta di giunchi dorati, e il fiume verde fra isole di sabbia bianca. Il silenzio era tale che s’udivano le donne a sbattere i panni laggiù, sotto il pino solitario della riva. La vecchia Pottoi ferma sulla sua soglia guardava, con una mano appoggiata al muro e l’altra sopra gli occhi: sembrava decrepita, piccola, con i gioielli ancora più vistosi e lugubri sul suo corpo ischeletrito.

«Che fate?», salutò don Predu.

«Aspetto Grixenda mia ch’è andata al fiume. Io non volevo, a dire il vero, perché il ragazzo, il nipote di vossignoria, glielo ha proibito, e se viene a saperlo si offende; ma Grixenda mia fa sempre di sua testa.»

«Che, vi ha scritto, Giacinto?»