«A chi? Scritto? Mai, ha scritto: non si sa nulla, di lui, ma deve tornare certo, perché l’ha promesso.»
«Già, tornano anche i morti, dite voi!»
Ma la vecchia si volse ad Efix che stava lì a testa bassa e fissava il selciato.
«Non lo ha detto a te che la sposa? Dillo su, l’ha detto o no?»
Efix la guardò un attimo, come aveva guardato Stefana, e non rispose.
«Quello che mi dispiace è il rancore delle dame», disse la vecchia, guardando di nuovo laggiù. «A noi ci scacciano, e solo Zuannantoni può qualche volta entrare nella loro casa più chiusa del Castello ai tempi dei Baroni: hanno perdonato a Kallina, peste la secchi, e a noi no. Nostra Signora del Rimedio le aiuti. Ma quando il ragazzo tornerà tutto andrà bene: lo disse anche donna Noemi.»
I due uomini s’allontanarono; ma la vecchia richiamò indietro don Predu e gli disse sottovoce:
«Non potrebbe farmi un favore? Dire lei a Grixenda che non vada al fiume? Non è dignitoso per lei, che deve sposare un signore».
Don Predu aprì le grosse labbra per ridere e dire una delle sue solite insolenze; ma abbassò gli occhi sulla vecchia tremante, guardò la collana e gli orecchini che oscillavano, e anche lui si toccò la catena d’oro e s’oscurò in viso come quella sera quando aveva veduto la spalla del nipote tremare.
Raggiunse Efix e si fermarono davanti al portone chiuso delle dame. Le ortiche crescevano sui gradini. Don Predu ricordava ogni volta Noemi lì ferma ad attendere, nell’ombra.
«Bene, allora restiamo intesi? Tu devi fare come ti dico io, intendi?»
«Inteso ho. Farò di tutto», disse Efix.
Picchiò, ma nessuno apriva. E don Predu stava lì, a toccarsi la catena e a guardare giù verso il fiume quasi anche lui aspettasse qualcuno.
«Oh che son morte anche loro?»
«Donna Ester sarà in chiesa e donna Noemi forse sarà coricata.»
«Perché, sta male?»
«Mah! Da qualche tempo, ogni volta che torno la trovo coricata. Ha mal di testa.»
«Oh, oh, bisognerebbe farla uscire, prendere un po’ d’aria.»
«Questo penso anch’io; ma dove?»
Don Predu guardava laggiù, verso il fiume: il suo viso sembrava diverso, sembrava quasi bello, triste e distratto come quello del nipote.
«Eh, dico, si può andare in qualche posto; a Badde Saliche, anche, il mio podere verso il mare; c’è ancora un po’ d’uva bianca…»
Il viso di Efix s’illuminò; ed egli volle dire qualcosa, ma dentro si sentiva aprire il portone, e don Predu si allontanò senza voltarsi, cercando di nascondersi lungo il muro.
Capitolo dodicesimo
Con grande meraviglia di Efix donna Ester accondiscese alle proposte del cugino. Così il poderetto fu venduto e la cambiale pagata. Ma avvenne una cosa che destò le chiacchiere di tutto il paesetto. Efix, pur continuando a stare al servizio di donna Ester e di donna Noemi, ottenne di coltivare a mezzadria il poderetto; così portava in casa delle sue padrone la porzione di frutti che gli spettava. Infine, dicevano le donne maliziose, da servo era salito al grado di parente, anzi di protettore delle dame Pintor.
Ciò che più sorprendeva era l’accondiscendenza di don Predu; ma da qualche tempo sembrava un altro; s’era persino dimagrito e una voce strana correva, che egli fosse «toccato a libro», vale a dire ammaliato per virtù di una fattucchieria eseguita coi libri santi.
Chi aveva interesse a far questo?
Non si sapeva: queste cose non si sanno mai chiare e precise, e se si sapessero non sarebbero più grandi e misteriose: il fatto era che don Predu dimagriva, non parlava più tanto insolentemente del prossimo e infine commetteva la sciocchezza di comperare un podere senza valore, e col podere il servo e a questo lasciava tutta la sua libertà.
Stefana e Pacciana dicevano:
«È un’elemosina ch’egli vuol fare alle sue disgraziate cugine».
Ma fra loro due, in confidenza, poiché don Predu continuava a mandare regali e regali alle dame Pintor, ammettevano che egli, sì, sembrava stregato, e parlavano di Efix sottovoce: tutto è possibile nel mondo, ed Efix amava le sue padrone fino al punto di rendersi capace di far per loro qualche sortilegio. Il suo andirivieni con don Predu destava soprattutto i sospetti delle serve: Stefana guardò se sotto la soglia ci fosse qualche oggetto magico nascosto, e Pacciana trovò un giorno una spilla nera nel letto del padrone… Fatti straordinari dovevano succedere.
Durante l’inverno le dame Pintor stettero sempre in casa e non parlarono mai di andare alla Festa del Rimedio, ma a misura che le giornate si allungavano e l’erba cresceva nell’antico cimitero, anche donna Ester pareva presa da un senso di stanchezza, da una malattia di languore come quella che tutti gli anni a primavera rendeva pallida Noemi: non andava quasi più in chiesa, si trascinava qua e là per la casa, si sedeva ogni tanto, con le mani abbandonate sulle cosce, dicendo che le facevano male i piedi. Nella casa la miseria non era più grave degli anni scorsi, poiché Efix provvedeva alle cose più necessarie, ma l’aria stessa pareva impregnata di tristezza.
In quaresima le due sorelle andarono a confessarsi. Era un bel mattino limpido, sonoro; s’udivano grida di bambini e tintinnii di greggi giù fra i giuncheti della pianura, e la voce del fiume, grossa, sempre più grossa, che pareva minacciasse, ma per scherzo. Sul cielo tutto turchino non una nuvoletta, e l’aria così trasparente che sulle rocce del Castello si vedevano scintillare le pietre e una finestra vuota delle rovine affacciarsi piena d’azzurro fra l’edera che l’inghirlandava.
Prete Paskale era dentro il suo confessionale, e non intendeva uscirne, sebbene Natòlia l’aspettasse in sagrestia col caffè e i biscotti in un cofanetto.
Vedendo arrivare le due nuove penitenti, la serva fece un atto disperato, e pensò che era bene andare a far riscaldare il caffè dalla sua amica Grixenda. Eccola dunque col cofanetto sul capo, uscire dietro l’abside, e scendere il viottolo, fra le macchie di rovo scintillanti di rugiada.
Attraverso la porta aperta della vecchia Pottoi si vedeva Grixenda china sulla fiamma del focolare a far bollire il caffè per la nonna ch’era a letto malata.
«Ti secchi ogni giorno di più», disse Natòlia entrando.
Grixenda infatti era magra e pallida; acerba ancora, ma come inaridita; certe mosse del collo scarno e del viso giallastro ricordavano quelle della nonna. Solo gli occhi brillavano grandi e chiari, pieni di una luce melanconica e insieme perfida, come l’acqua delle paludi giù fra i giuncheti della pianura.
«Il caffè mi si raffredda: adesso poi son venute le tue zie, e diventerà di ghiaccio», disse Natòlia, traendo la caffettiera dal cofanetto. «Così me ne bevo un po’ anch’io.»
«Le mie zie! Che sian fustigate! E tu con loro! Se vuoteranno tutto il sacco dei loro peccati, certo troverai il tuo padrone morto di sincope dentro il confessionale…»
«Che lingua! Si vede che t’ha morsicato la vipera. Prendi un biscotto, eccolo, te l’offro come un fiore per raddolcirti il cuore…»
Ma Grixenda aveva davvero il cuore attossicato e non accettava scherzi.
«Se sei venuta per pungermi ti sbagli, Natòlia: spine tu non ne hai, perché sei l’euforbia, non la rosa. Io non ho dolori, non ho dispiaceri: son forte come il pino in riva al fiume. E verrà un giorno che tu mi manderai un’ambasciata per chiedermi di diventar mia serva.»
«Chi devi sposare? Il barone del castello?»
«Sposerò un vivo, non un morto, i morti ti si attacchino ai fianchi!»
«Mi pare sii stata tu a stregare don Predu.»
«Se lo voglio, sposo anche don Predu», disse Grixenda sollevando fieramente il viso tragico infantile, «ma ho altri pensieri in mente, io!»
Natòlia la guardava e ne sentiva pietà: le sembrava un po’ fuori di sé, l’infelice, e non insisté quindi nel tormentarla. Prese un altro biscotto e andò a offrirlo a zia Pottoi nel suo buco. Una striscia di luce pioveva dal tetto della stanzetta terrena, illuminando il letto ove la vecchia giaceva vestita e con la collana e con gli orecchini, stecchita e immobile come un cadavere abbigliato per la sepoltura.