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Credendola addormentata Natòlia le sfiorò la mano che scottava; ma la vecchia l’attirò a sé dicendole sottovoce:

«Senti, Natòlia, mi farai un piacere: va’ da Efix Maronzu e digli che devo parlargli: ma che non lo sappia Grixenda: va’, piccola tortora, va’!».

«E dove lo trovo io, Efix? Sarà in paese?»

«Egli vien su dal poderetto: lo vedo venir su», disse la vecchia, mettendosi un dito sulle labbra, perché Grixenda entrava col caffè.

«Vedi, Natòlia; s’è voluta alzare stamattina, e ha la febbre alta. Nonna, nonna, tornate sotto le coperte.»

«Tornerò, tornerò: tutti torniamo sotto la coperta», disse la vecchia, e Natòlia se ne andò con un peso sul cuore.

Cosa strana, ripassando davanti alla casa delle dame vide proprio Efix salire su dalla strada solitaria: andava curvo sotto la bisaccia, così curvo che pareva cercasse qualcosa per terra.

«La vecchia deve morire e «vede» già», pensò Natòlia.

Egli la guardò coi suoi occhi indifferenti come quelli di un animale, e non disse se sarebbe o no andato dalla vecchia: saputo che le sue padrone stavano a confessarsi si tolse la bisaccia, la depose sul gradino e sedette aspettando: le ortiche gli punsero le mani.

La serva allora tornò in chiesa, e guardò se poteva dire alle dame che il servo era giunto, – così avrebbero lasciato libero il prete; ma da una parte del confessionale stava donna Ester di cui si vedeva il lembo dello scialle venir fuori come un’ala nera, e dall’altra stava già donna Noemi, col dorso che ondulava lievemente, a tratti, sotto la stoffa nera opaca, e un piede lungo e nervoso fuori dalla sottana sollevata.

Le altre penitenti pregavano, di qua e di là nella chiesa, accovacciate sul pavimento verdastro: un silenzio profondo, una luce azzurrina, un odore di erba inondavano la Basilica umida e triste come una grotta; la Maddalena affacciata alla sua cornice pareva intenta alle voci della primavera che venivano con l’aria fragrante, e Noemi sentiva anche lei, fin là dentro, fin contro la grata che esalava un odor di ruggine e di alito umano, un tremito di vita, un desiderio di morte, un’angoscia di passione, uno struggimento di umiliazione, tutti gli affanni, i rimpianti, il rancore e l’ansito della peccatrice d’amore.

Rientrando videro Efix rialzarsi a fatica appoggiando la mano allo scalino. Allora Noemi, calda ancora di pietà e d’amore di Dio, s’accorse per la prima volta che il servo si era mal ridotto, vecchio, grigio, con le vesti divenutegli larghe, e tese la mano come per aiutarlo a sollevarsi. Ma egli era già su e non badava all’atto di lei.

E quando furono dentro e donna Ester domandò notizie del poderetto come fosse ancora suo, egli rispose alzando le spalle con rozzezza insolita e andò a lavarsi al pozzo.

Aprile rallegrava anche il triste cortile, le rondini sporgevano la testina nera dai nidi della loggia guardando le compagne che volavano basse come inseguendo la loro ombra sull’erba fitta dell’antico cimitero.

«Efix, mi pare che non stai troppo bene. Tu dovresti prenderti qualche cosa, o riposarti qualche giorno», disse Noemi.

«Ah, sì, donna Noemi? Se penso invece di camminare!»

«Ti dico che stai male: non scherzare. Che hai?»

Egli la guardava con occhi vivi, lucidi, ed era tale la sua gioia improvvisa che le rughe intorno agli occhi parevano raggi.

«Invecchio», disse, battendosi le mani una sull’altra; e d’improvviso la sua gioia se n’andò, com’era venuta.

Egli era tornato in paese perché don Predu aveva mandato a chiamarlo: altrimenti non si sarebbe più mosso dal poderetto. Che poteva la pietà di donna Noemi contro il suo male? Non faceva che aumentarglielo.

Andò dunque dal nuovo padrone e lo trovò arrampicato su una scala a piuoli a potar la vite sotto la rete dei rami del melograno ricamata di foglioline d’oro.

Anche là le rondini s’incrociavano rapide, ma più alte, sullo sfondo latteo del cielo: entro casa si sentivano le donne pulire le stanze e mettere tutto in ordine per la Pasqua, e una grande pace regnava intorno.

Efix non dimenticò più quei momenti. Era partito dal poderetto con la certezza che qualche cosa di straordinario doveva succedere; ma guardando in su ai piedi della scala gli pareva che don Predu fosse anche lui triste, quasi malato, ed esitasse a scendere, con la falciuola scintillante in una mano e nell’altra il tralcio di vite dalla cui estremità violacea stillavano come da un dito tagliato gocce di sangue.

«Aspetta che finisco: o hai fretta d’andartene?», disse don Predu, ma subito si riprese, parve ricordarsi, e scese pesantemente, lasciando che Efix tirasse in là la scala.

«Ecco», cominciò, quando furono nella stanza terrena piena di sole e d’ombra di rondini, «ecco, io ti devo dire una cosa…», ed esitava guardandosi le unghie, «ecco, io voglio sposare Noemi.»

Efix cominciò a tremare così forte che la mano, sul tavolo, pareva saltasse. Allora don Predu si mise a ridere del suo riso goffo e cattivo d’altri tempi.

«Non la vorrai sposare tu, credo! Ti serbo Stefana, lo sai!»

Efix taceva: taceva e lo guardava, e i suoi occhi erano così pieni di passione, di terrore, di gioia, che don Predu si fece serio. Ma tentava ancora di scherzare.

«Perché ti turbi tanto? Speri che io ti paghi quello che ti devono? No, sai: tu ti aggiusti con Ester; io non ho che vederci. Eppoi c’è una cosa…»

Si raschiò con l’unghia una macchia del corpetto, guardandoci su attentamente.

«Mi vorrà, poi?»

«Ah! Che dice!», balbettò Efix.

«Non esser tanto sicuro! Oh, adesso parliamo sul serio. Ho pensato bene prima di decidermi: lo faccio, credi pure, più per dovere che per capriccio. Che aspetto? Dove vado? Alla mia età una donna molto giovane non mi conviene. Ma questo non importa: insomma ho deciso. Ebbene, non te lo nego: Noemi è bella e mi piace, m’è sempre piaciuta, a dirti la verità. Mah! Che vuoi! La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca. Mah, lasciami stare» aggiunse, battendosi le mani sulle ginocchia e poi alzandosi e poi rimettendosi a sedere. «Quello che adesso importa è di sapere se Noemi accetta. Io farò la domanda come si conviene; le manderò prete Paskale, o il dottore o chi vuole; ma non voglio prendermi un rifiuto, eh, così Dio mi assista, questo no, perbacco! Tu intendi, Efix?»

Efix intendeva benissimo, e accennava di sì, di sì, col capo, con gli occhi scintillanti.

«Devo parlar io, con donna Noemi?»

Don Predu gli batté una mano sulle ginocchia.

«Bravo! È questo. E prima è, meglio è, Efix! Queste cose non bisogna lasciarle inacidire. Le dirai: "Chi si deve mandare per la domanda ufficiale? Prete Paskale, o la sorella, o chi?". Se lei dice di non mandare nessuno, tanto meglio, in fede di cristiano, tanto meglio! Eppoi le cose le faremo presto e senza chiasso: non siamo più due ragazzetti. Che ne pensi? Io ho quarantotto anni a settembre, e lei sarà sui trentacinque, che ne dici? Tu sai la sua età precisa? Oh, poi le dirai che non si dia pensiero di nulla: la casa è pronta, le serve ci sono; pettegole, sì, ma ci sono, e pagate bene. La biancheria c’è, tutto c’è. Le provviste non mancano, eh, così Dio la conservi! Basta, di queste cose poi parleremo con Ester. Solo mi dispiace… Ebbene, te lo posso dire: che Ruth sia morta così… Forse anche lei sarebbe stata contenta…»

Efix s’alzò. Sentiva qualche cosa pungerlo in tutta la persona, e aveva bisogno di andare, di affrettare il destino.

«Ebbene, aspetta un altro po’, diavolo! Ti darò da bere: un po’ di acquavite? O anice? Stefana, ira di Dio, c’è il tuo pretendente, Stefana!»

s’udivano le donne sbattere i mobili con furore. Finalmente la serva anziana apparve, con un tovagliolo sul capo e un altro in mano, seria e imponente, tuttavia, con gli occhi pieni di rassegnazione ai voleri del padrone. Aprì l’armadio, versò l’anice e guardò Efix con un vago senso di terrore, ma anche per scrutare se egli prendeva sul serio gli scherzi del padrone: ma Efix era così umile e sbigottito ch’ella tornò su e disse alla compagna giovine: