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«s’egli ha fatto la stregoneria l’ha fatta bene. La fortuna cade come una saetta su quella gente: pulisci bene, che sarà fatica risparmiata per le nozze».

«Tue con Efix?», disse Pacciana. «Per don Predu bisogna prima aspettare che donna Noemi lo accetti!»

Ma Stefana fece le fiche, tanto queste parole le sembravano assurde.

Quando fu nella strada dopo che don Predu lo ebbe accompagnato fino al portone come un amico, Efix si guardò attorno e sospirò.

Tutto era mutato; il mondo si allargava come la valle dopo l’uragano quando la nebbia sale su e scompare: il Castello sul cielo azzurro, le rovine su cui l’erba tremava piena di perle, la pianura laggiù con le macchie rugginose dei giuncheti, tutto aveva una dolcezza di ricordi infantili, di cose perdute da lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si rimpiangono più.

Tutto è dolce, buono, caro: ecco i rovi della Basilica, circondati dai fili dei ragni verdi e violetti di rugiada, ecco la muraglia grigia, il portone corroso, l’antico cimitero coi fiori bianchi delle ossa in mezzo all’avena e alle ortiche, ecco il viottolo e la siepe con le farfalline lilla e le coccinelle rosse che sembrano fiorellini e bacche: tutto è fresco, innocente e bello come quando siamo bambini e siamo scappati di casa a correre per il mondo meraviglioso.

La Basilica era aperta, in quei giorni di quaresima, ed Efix andò a inginocchiarsi al suo posto, sotto il pulpito.

La Maddalena guardava, lieta anche lei, come una dama spagnola ospite dei Baroni affacciata a un balcone del Castello. Sentiva la primavera anche lei, era felice benché fossero i giorni della passione di Nostro Signore. Qualche ricco feudatario doveva averla domandata in sposa, ed ella sorrideva ai passanti, dal suo balcone, e sorrideva anche ad Efix inginocchiato sotto il pulpito.

«Signore, Vi ringrazio, Signore, prendetevi adesso l’anima mia; io sono felice d’aver sofferto, d’aver peccato, perché esperimento la vostra Misericordia divina, il vostro perdono, l’aiuto vostro, la vostra infinita grandezza. Prendetevi l’anima mia, come l’uccello prende il chicco del grano. Signore, disperdetemi ai quattro venti, io vi loderò perché avete esaudito il mio cuore…»

Eppure nell’alzarsi a fatica, con le ginocchia indolenzite, provò un senso di pena, come se l’ombra di una nuvola passasse nella chiesa velando il viso della Maddalena.

Anche il viso di donna Noemi, curva a cucire nel cortile, era velato d’ombra.

Efix colse una viola del pensiero dall’orlo del pozzo e andò a offrirgliela. Ella sollevò gli occhi meravigliati e non prese il fiore.

«Indovina chi glielo manda? Lo prenda.»

«Tu l’hai colto e tu tientelo.»

«No, davvero, lo prenda, donna Noemi.»

Sedette davanti a lei, per terra, a gambe in croce come uno schiavo, prendendosi i piedi colle mani: non sapeva come cominciare, ma sapeva già che la padrona indovinava. Infatti Noemi aveva lasciato cadere la viola in una valletta bianca della tela; le batteva il cuore; sì, indovinava.

«Donna Ester dov’è?», disse Efix curvandosi sui suoi piedi. «Come sarà contenta, quando saprà! Don Predu mi aveva fatto tornare in paese per questo…»

«Ma che cosa dici, disgraziato?»

«No, non mi chiami disgraziato! Sono contento come se morissi in grazia di Dio in questo momento e vedessi il cielo aperto. Sono stato in chiesa, prima di tornar qui, a ringraziare il Signore. In coscienza mia, è così…»

«Ma perché, Efix?», ella disse con voce vaga, pungendo con l’ago la viola. «Io non ti capisco.»

Egli sollevò gli occhi: la vide pallida, con le labbra tremanti, con le palpebre livide come quelle di una morta. È la gioia, certo, che la fa sbiancare così; ed egli prova un tremito, un desiderio d’inginocchiarsi davanti a lei e dirle: sì, sì, è una grande gioia, donna Noemi, piangiamo assieme.

«Lei accetta, donna Noemi, padrona mia? È contenta, vero? Devo dirgli che venga?»

Ella fece violenza a se stessa; si morsicò le labbra, riaprì gli occhi e il sangue tornò a colorirle il viso, ma lievemente, appena intorno alle palpebre e sulle labbra. Guardò Efix ed egli rivide gli occhi di lei come nei giorni terribili, pieni di rancore e di superbia. L’ombra ridiscese su lui.

«Non si offenda se gliene parlo io per il primo, donna Noemi! Sono un povero servo, sì, ma sono chiuso come una lettera. Se lei accetta, don Predu manderà il prete a far la domanda, o chi vuol lei…»

Noemi buttò giù la viola ferita e si rimise a cucire. Pareva tranquilla.

«Se Predu ha voglia di ridere, rida pure; non m’importa nulla.»

«Donna Noemi!»

«Sì, sì! Non dico che non faccia sul serio, sì. Allora non saresti lì. Ma adesso fa’ il piacere, alzati e vattene.»

«Donna Noemi?»

«Ebbene, che hai adesso? Levati, non star lì inginocchiato, con le mani giunte! Sei stupido!»

«Ma donna Noemi, che ha? Rifiuta?»

«Rifiuto.»

«Rifiuta? Ma perché, donna Noemi mia?»

«Perché? Ma te lo sei dimenticato? Sono vecchia, Efix, e le vecchie non scherzano volentieri. Non parlarmene più.»

«Questo solo mi dice?»

«Questo solo ti dico.»

Tacquero. Ella cuciva: egli aveva sollevato le ginocchia e si stringeva in mezzo le mani giunte. Gli pareva di sognare, ma non capiva. Finalmente alzò gli occhi e si guardò attorno. No, non sognava, tutto era vero; il cortile era pieno di sole e d’ombra: qualche filo di legno cadeva dal balcone come cadono le foglie dei pini in autunno; e al di là del muro si vedeva il Monte bianco come di zucchero, e tutto era soave e tenero come al mattino quando egli era uscito dalla casa di don Predu. Gli pareva di sentire ancora le donne a sbattere i mobili; ma erano colpi sulla sua persona; sì, qualche cosa lo percoteva, sulla schiena, sulle spalle, sulle scapole e sui gomiti e sui ginocchi e sulle nocche delle dita. E donna Noemi era lì, pallida, che cuciva, cuciva, che gli pungeva l’anima col suo ago: e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere. Le loro ombre correvano sul terreno come foglie spinte dal vento: ed egli ricordò la pena provata nell’alzarsi di sotto il pulpito e l’ombra sul viso della Maddalena. Sospirò profondamente. Capiva. Era il castigo di Dio che gravava su lui.

Allora, piano piano, cominciò a parlare, afferrando il lembo della gonna di Noemi, e non capiva bene ciò che diceva, ma doveva essere un discorso poco convincente perché la donna continuava a cucire e non rispondeva, di nuovo calma con un sorriso ambiguo alle labbra.

Solo dopo ch’egli parve aver detto tutto, tutte le miserie passate, tutti gli splendori da venire, ella parlò, ma piano, sollevando appena gli occhi quasi parlasse con gli occhi soltanto.

«Ma non prenderti tanto pensiero, Efix, non immischiarti oltre nei fatti nostri. E poi lo sai: abbiamo vissuto finora; non siamo state bene, finora? Che ci è mancato? E tireremo avanti, con l’aiuto di Dio: il pane non mancherà. In casa di Predu c’è troppa roba e non saprei neppure custodirla.»

Efix meditava, disperato. Che fare, se non ricorrere a qualche menzogna?

Riprese a palparle la veste.

«Eppoi devo dirle cose gravi, donna Noemi mia. Non volevo, ma lei, con la sua ostinazione, mi costringe. Don Predu è tanto preso che se lei non lo vuole morrà. Sì, è come stregato, non dorme più. Lei non sa cosa sia l’amore, donna Noemi mia; fa morire. È poca coscienza far morire un uomo…»