Allora Noemi rise e i suoi denti intatti luccicarono sino in fondo come quelli d’una fanciulla follemente allegra. Quel riso fece tanto male a Efix, lo irritò, lo rese maligno e bugiardo.
«Eppoi un’altra cosa più grave ancora, donna Noemi! Sì, mi costringe a dirgliela. Don Giacinto minaccia di tornarsene qui… Intende?»
Ella smise di cucire, si drizzò sulla vita, si piegò indietro col viso per respirare meglio: le sue mani abbrancarono la tela.
Ed Efix balzò su spaventato, credendo ch’ella stesse per svenire.
Ma fu un attimo. Ella tornò a guardarlo coi suoi occhi cattivi e disse calma:
«Anche se torna non c’è più nulla da perdere. E non abbiamo bisogno di nessuno per difenderci».
Egli raccolse di terra la viola e andò a sedersi sulla scala, come la notte dopo la morte di donna Ruth. Non si domandava più perché Noemi rifiutava la vita: gli sembrava di capire. Era il castigo di Dio su lui: il castigo che gravava su tutta la casa. Ed egli era il verme dentro il frutto, era il tarlo che rodeva il destino della famiglia. Appunto come il tarlo egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso, roso, adesso si meravigliava se tutto s’era sgretolato intorno a lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco sosteneva la viola livida ch’egli teneva fra le dita. Dio non abbandonerebbe le disgraziate donne. Andato via lui, donna Noemi, forse offesa dalla stessa maniera dell’ambasciata, si piegherebbe. Dopo tutto, due donne sole non possono vivere.
Bisognava andare. Come aveva fatto, a non capirlo ancora? Gli sembrò che una voce lo chiamasse: e una voce lo chiamò davvero, al di là del muro, dal silenzio della strada.
s’alzò e s’avviò: poi tornò indietro per riprendere la bisaccia attaccata al piuolo sotto la loggia. Il piuolo, fisso lì da secoli, si staccò e balzò fra i ciottoli del cortile come un grosso dito nero. Egli trasalì. Sì, bisognava andarsene: anche il piuolo si staccava per non sostener più la bisaccia.
E con sorpresa di Noemi, che aveva seguito con la coda dell’occhio tutti i movimenti di lui, egli non riattaccò il piuolo, e s’avviò.
«Efix? Te ne vai?»
Egli si fermò, a testa bassa.
«Non aspetti Ester? Torni per Pasqua?»
Egli accennò di no.
«Efix, ti sei offeso? Ti ho detto qualche cosa di male?»
«Nulla di male, padrona mia. Solo che devo andare: è ora.»
«E allora va’ in buon’ora.»
Egli pensò un momento: gli parve di dimenticare qualche cosa, come quando si sta per intraprendere un viaggio e ci si domanda se si è provvisti di tutto.
«Donna Noemi, comanda nulla?»
«Nulla. Solo mi pare che tu stia male: sei malato? Sta’ qui, chiameremo il dottore: ti tremano le gambe.»
«Devo andare.»
«Efix ascolta: non averti a male di quanto t’ho detto. È così, non posso, credi. Lo so che ti fa dispiacere, ma non posso. Non dir nulla a Ester. E va’, se vuoi andare. Ma se ti senti male torna; ricordati che questa è casa tua.»
Egli s’accomodò sulle spalle la bisaccia e uscì. Sugli scalini del portone scosse i piedi uno dopo l’altro per non portar via neppure la polvere della casa che abbandonava.
Capitolo tredicesimo
Fuori lo aspettava Zuannantoni.
«Vi ho chiamato tre volte: andiamo, c’è nonna che sta male e vuol parlarvi: perché non venite? Non vi si prende il pane dalla bisaccia.»
La vecchia stava ancora vestita sul letto, coi polsi nudi, rossicci e ardenti come tizzi accesi, pareva assopita, ma quando Efix si curvò su di lei gli disse con voce afona:
«Lo vedi? Essa è andata al fiume, per lavare, perché lavorare bisogna. E tu avevi detto che la sposava!».
«Zia Pottoi! Pazienza bisogna avere. Siamo nati per patire.»
La vecchia sollevò il braccio e lo attirò a sé tenacemente. Un odore di putrefazione e di tomba esalava dal lettuccio; ma egli non si scostò sebbene sentisse la collana di zia Pottoi, calda come fosse stata sul fuoco, sfiorargli il viso e l’alito di lei passargli sui capelli come un ragno.
«Ascoltami, Efix, siamo davanti a Dio. Io sto per partire: verrà lui stesso, a prendermi, don Zame, come avevamo convenuto al tempo della nostra fanciullezza. Adesso è tempo d’andarcene assieme. E per la strada gli dirò che non si fermi dov’è caduto, dove tu lo hai ucciso, e che ti perdoni per l’amore che hai portato alle sue figlie. Ti perdonerà, Efix; hai portato il carico abbastanza, ma tu, tu, Efix, a tua volta salva Grixenda mia: essa sta per perdersi; aspetta solo la mia morte per fuggire, e io non posso chiuder gli occhi tranquilla. Tu va’ dal ragazzo, e digli che non la perda, che si ricordi che ha promesso di sposarla. E che la sposi, sì, così anche donna Noemi non penserà più a lui. Va’.»
Lo respinse ed egli spalancò gli occhi, ma gli parve di averli bruciati, coperti di cenere, come tornasse dall’inferno. La vecchia non aveva riaperto i suoi: con le mani rigide, le dita dure aperte, muoveva ancora le labbra violette orlate di nero, ma non parlava più.
Non parlò più.
Dal buco del tetto pioveva come da un imbuto capovolto un raggio dorato che illuminava sul lettuccio il suo corpo nero e le sue collane, lasciando scuro il resto della stanza desolata.
Efix guardava come dal fondo di un pozzo quel punto alto lontano; ma d’improvviso gli parve che il raggio deviasse, piovesse su lui, illuminandolo. Tutto era chiaro, così. I suoi occhi oramai distinguevano tutto, gli errori scuri intorno, il centro luminoso, che era il castigo di Dio su lui.
E riprese la bisaccia, senza più parlare, e se ne andò.
Passando davanti alla casa di don Predu chiamò Stefana e le disse ch’era costretto a partire per affari suoi e che non sapeva quando sarebbe tornato.
«Di’ almeno dove vai.»
«A Nuoro.»
Per arrivare a Nuoro impiegò due giorni. Andava su, piano piano, a piccole tappe, buttandosi sull’orlo della strada quando era stanco. Chiudeva gli occhi, ma non dormiva: riaprendoli vedeva lo stradone giallognolo perdersi tra il verde e l’azzurro delle lontananze, su verso i monti del Nuorese, giù verso il mare della Baronia, e gli pareva di esser sempre vissuto così, sull’orlo d’una strada metà percorsa, metà da percorrere: laggiù in fondo, aveva lasciato il luogo del suo delitto, lassù, verso i monti, era il luogo della penitenza.
Il tempo era bello; le valli eran già coperte d’erba e le pervinche fiorivano sorridenti come occhi infantili.
Reti d’acqua scintillavano tra il verde delle chine, e il fiume mormorava fra gli ontani. Qualche carro passava nello stradone, e ad Efix veniva desiderio di chiedere d’essere portato; ma subito se ne affliggeva.
No, doveva camminare per penitenza, «arrivare» senza aiuto di nessuno.
Questo suo primo viaggio aveva però uno scopo; egli quindi si preoccupava ancora delle cose del mondo, e di arrivare presto e di sbrigarsi: dopo, gli pareva, sarebbe stato libero, solo col suo carico da portare con pazienza fino alla morte.
La prima notte sostò in una cantoniera della valle, ma non poté dormire. La notte era limpida e dolce; sul cielo bianco sopra la valle chiusa da colonne di rocce la luna pendeva come una lampada d’oro dalla volta d’un tempio: ma un uomo malato gemeva nella cantoniera triste come una stalla, e il dolore umano turbava la solitudine.
Efix ripartì prima dell’alba, più stanco di prima. Ed ecco i monti d’Oliena sorgere dalle tenebre bianchi e vaporosi come una massa d’incenso di fronte al rozzo altare di granito dell’Orthobene: tutto il paesaggio ha un aspetto sacro, e il Redentore ferma il volo sulla roccia più alta, con la croce che sbatte le sue braccia nere sul pallore dorato del cielo.
Ed Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera.