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A misura che saliva verso Nuoro sentiva come un gran cuore sospeso sopra la valle palpitare forte, sempre più forte.

«È il Molino, e Giacinto è là», pensò con gioia.

Era l’ultima tappa del suo viaggio mondano, l’ultima salita del suo calvario, quel vicolo in salita, lurido, oleoso, con un gattino morto in mezzo alle immondezze e il cielo rosso sopra i muri alti coperti di gramigne.

Arrivato a metà si volse: l’ombra saliva dalla valle, descrivendo un cerchio bruno su per le chine rosee dell’Orthobene, e raggiungeva anche lui su per il vicolo. In alto era l’ansito del Molino, un palpito maschio in contrasto col richiamo femineo d’una campana che suonava a vespro; e sullo sfondo della strada passavano contadini coi buoi aggiogati, borghesi imponenti come don Predu, donne con anfore sul capo: altre donne sedevano, pallide, in riposo, sulle pietre dei muricciuoli che recingevano un cortiletto esterno.

Efix si mise a parlare con loro, fermo stanco con la bisaccia che gli scivolava dalle spalle.

«Dove sta don Giacinto?»

«Chi? Quello del Molino? Qui, più sopra: cosa gli porti in quella bisaccia? Sei il suo servo?»

«Sì: e che fa, don Giacinto?»

«Eh, lavora e si diverte. È allegro. È un ragazzo d’oro. Tutte le donne gli vanno appresso… se lo contrastano come un dolce di miele…»

Allora Efix ricordò la festa del Rimedio, Natòlia e Grixenda che ballavano stringendosi in mezzo lo straniero; e un dolore cocente lo punse, ma col dolore un intenso desiderio di fare qualche cosa contro il destino.

«Ma dove posso trovarlo? È al Molino, adesso?»

«Ecco che viene!»

Ecco infatti Giacinto arriva frettoloso, a testa nuda, coi capelli e i vestiti bianchi di farina: già qualcuno era corso ad avvertirlo dell’arrivo del servo.

«Che cosa sei venuto a cercare fin quassù?», gli domandò, afferrandolo e scuotendolo per gli omeri.

Efix lo guardava senza rispondere lasciandosi trascinare su per la straducola fino a un cortiletto chiuso fra due casette sopra la valle: un uomo, un borghese piccolo quasi nano, con gli occhi grandi melanconici e il viso bianco, attingeva acqua dal pozzo e Giacinto lo presentò come il suo padrone di casa.

«Devo parlarti», disse Efix.

«E son qui, parla.»

Sedettero nella cucina, ma il borghese preparava la cena ed Efix non voleva parlare in sua presenza: da parte sua Giacinto scherzava e rideva e non sollecitava il colloquio.

Attraverso il finestrino si vedeva sulle rocce dell’Orthobene il Redentore piccolo come una rondine, e dall’orto saliva un odore di violacciocche che ricordava il cortile laggiù delle dame.

Efix si sentiva dolere il cuore ma non poteva parlare. Solo disse:

«Giacintì, sei diventato allegro, mi pare!».

«Che fare? Impiccarmi?»

Ma l’ometto curvo a cuocere i maccheroni sollevò gli occhi tristi e Giacinto rise e guardò le travi del tetto.

«Sai, Efix, i primi giorni che venni qui, a pensione da questo buon servo di Dio, tentai davvero di appiccarmi. Rammentate, Micheli?» l’ometto accennò di sì, ma scuotendo la testa con rimprovero. «Ed egli mi salvò, mi mise a letto come un bambino; mi legava, quando usciva; avevo la febbre alta: ma poi passò tutto, e adesso sono allegro e contento. Vero, Micheli? Non sono allegro e contento? Su, Efix, parla. Tu certo sei venuto a turbare la mia allegria.»

«La vecchia Pottoi è morta», disse Efix finalmente, e Giacinto gli accostò la sua forchetta al viso quasi volesse pungerlo.

«Va’ uccello di malaugurio! Lo sapevo che portavi la notizia di una morte! E altro?»

«E Grixenda si prepara a lasciarci. Te la vedrai capitare qui fra qualche giorno: ecco, questo son venuto a dirti.»

Giacinto rifece il viso infantile di un tempo, triste e spaventato.

«Ah, questo no, questo no! Io non voglio che venga!»

«Non vuoi? E come puoi impedirglielo? d’altronde è tua fidanzata: hai promesso di sposarla.»

«Io non posso sposarla: vero, vero che non posso, Micheli? Non posso e non voglio! Non sono in condizioni di sposarmi: sono un pezzente, ho altri doveri, tu lo sai. Ebbene, posso parlare davanti a quest’uomo, che sa tutto di me, come lo sai tu, e mi compatisce. Io devo pagare il debito delle zie. E per questo che volevo morire: perché avevo la disperazione nel cuore. Ma quest’uomo mi disse: ti terrò «gratis» in casa mia, ti darò alloggio e anche da mangiare quando ne ho, ma tu devi lavorare e pagare il tuo debito.»

Efix guardava l’ometto tra il meravigliato e il diffidente e pareva chiedergli con gli occhi «perché tanta generosità?». E l’uomo, che mangiava col viso curvo sul piatto, sollevò gli occhi e disse:

«Perché siamo cristiani!».

Allora Efix tornò come dentro di sé nella casa della sua anima, e ricordò perché era venuto.

«Giacinto, eppure bisogna che tu sposi Grixenda. Essa verrà qui, a giorni; non mandarla via, non perderla!»

«Ma, sant’uomo! Non hai orecchie per ascoltare? Io ti dico che non posso tenerla, che non posso sposarla: devo pagare il debito delle zie!»

«Tu lo pagherai sposandola.»

«Ha ereditato tanto?», disse allora Giacinto ridendo; ma Efix lo guardava serio, e ripeté due volte:

«Sono venuto per parlarti di questo».

Il padrone di casa capì che la sua presenza era di troppo e se ne andò via silenzioso nonostante le proteste e i richiami di Giacinto.

«Lascialo», disse Efix. «Quello che ho da dirti, nessuno deve saperlo.»

Eppure, rimasti soli, provarono entrambi un senso d’imbarazzo; la luce pareva un ostacolo fra di loro. Uscirono nel cortiletto, sedettero sullo scalino, e Giacinto tirò la porticina dietro di sé, come per impedire al lume e al fuoco di ascoltare; ed Efix cercava le parole per trar fuori dal suo cuore il penoso segreto. Ah, gli sembrava talmente grande e pesante da non poterlo trarre intero: a brani, forse, sì, sanguinante. Si curvò su se stesso: scavava, silenzioso, tirava, tirava su, come un macigno da un pozzo. Finalmente si sollevò sospirando, stanco e impotente.

«Giacinto, così ti dico. Le cose del mondo son così. Don Predu vuole sposare donna Noemi e donna Noemi non vuole. Colpa tua!»

Giacinto non rispose, ma gli afferrò forte il braccio e parve volesse stroncarglielo: poi glielo lasciò.

Efix lo sentiva ansare lievemente, come colto da malessere, e a sua volta, mentre si stringeva il braccio che gli ardeva per la stretta, respirò con angoscia.

«Sì, colpa tua, colpa tua», ricominciò quasi aggressivo. «Non lo sapevi? Alla buon’ora! La vecchia almeno questo non te lo ha detto. Ma adesso bisogna pensarci sul serio. Bisogna toglierle questo verme dal cervello, a tua zia, intendi? Intendi?»

«Che posso farci io?», disse finalmente Giacinto. E parve ricadere di nuovo nella sua antica tristezza.

Curvo su se stesso nell’ombra guardava la terra ai suoi piedi e vedeva un abisso nero.

«Che puoi farci? Lo sai, te l’ho detto: comincia tu a fare il tuo dovere; poi lei farà il suo…»

«Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? Ricordati quello che dicevamo laggiù al poderetto: te lo ricordi? E tu, sei stato tu, a fare la sorte?»

Ed anche Efix si curvò; e stettero così, vicini, tanto che l’uno sentiva il caldo del fianco dell’altro; stettero quasi tempia contro tempia, come ascoltando una voce di sotterra.

«Vero è! Non possiamo fare la sorte», ammise Efix.

«Eppoi, tu credi ch’ella sarebbe felice, sposando zio Pietro? Non basta il pane per renderci felici; adesso me ne accorgo anch’io… Ci vuole altro!»

«Ma tu, dimmi… tu…»

«Io?»

«Sì, tu, sapevi?»

«Che vuoi che ti dica? Un uomo si accorge sempre di queste cose. Ma io ti giuro sull’anima di mia madre; io l’ho sempre rispettata, Noemi, come una cosa sacra… Eppure, sì, te lo dico, perché so che posso dirtelo, solo una volta, quando ella è svenuta ed io ho pianto sopra i suoi occhi, sì, posso dirtelo come potrei dirlo a mia madre, con la stessa innocenza, sì, ci siamo guardati… attraverso le lacrime, e forse allora… forse allora… Non so, ecco; non ti dico altro. Ma forse per questo sono andato via, più che per quanto avevo commesso di male.»