«Bisogna distenderlo», disse la donna, «ora gli darò un po’ di liquore. Mettilo giù, aiutami.»
Fu messo giù, ma le gocce d’un liquido verde ch’ella tentò di versargli in bocca sopra i denti serrati gli si sparsero sul mento.
«Pare morto. E tu, non ti muovi?», ella disse all’altro mendicante. «Era malato? Non rispondi?»
L’uomo tentò di parlare, ma solo un mugolìo tremulo gli uscì di bocca: poi scoppiò a piangere.
«Va’, muoviti, chiama i pastori che stanno lassù nel bosco…»
«Dove lo mandi che è cieco?», disse Efix, inginocchiato con una mano sul cuore del vecchio. Il cuore sussultava, come tentando ogni tanto di sollevarsi e subito ricadendo.
E l’ombra si addensava rapida; ogni nuvola, passando sul vicino orizzonte, lasciava un velo, il vento urlava dietro la chiesa, tutte le macchie tremavano protendendosi in là verso la valle, e pareva volessero fuggire, luminose d’un verde metallico, agitate da una convulsione di tristezza e di terrore.
Anche la donna ebbe paura della solitudine e di quella morte improvvisa. Si mise le cassette sul capo e disse:
«Bisogna che vada. Avvertirò il medico, a Nuoro».
Così Efix rimase solo, fra il moribondo ed il cieco.
«Il mio compagno soffriva di cuore», raccontava il mendicante. «Anche questi giorni scorsi è stato male: ma nessuno ci credeva. La gente non crede mai…»
«Era tuo parente?»
«No; ci siamo incontrati dieci anni fa, alla Festa del Miracolo. Io allora avevo un compagno, Juanne Maria, che mi maltrattava. Mi maltrattava come un cane. Allora questo povero vecchio mi prese con sé: mi teneva come un figlio, non mi lasciava mai la mano se non ero seduto al sicuro. Adesso è finito…»
«E adesso come farai?»
«Cosa vuoi che faccia? Starò qui, aspettando la morte. Ho tutto con me, sia salva l’anima mia.»
«Io posso ricondurti fino a Nuoro», disse Efix, e d’improvviso cominciò a piangere.
Curvo sul moribondo tentava di rianimarlo bagnandogli le labbra col liquore lasciato dalla donna e la fronte con uno straccio inzuppato nel vino. Ma il viso tragico si tingeva di viola e di verde, sempre più duro e immobile alla luce fosca del crepuscolo. Anche il cuore cessò di battere. Efix riviveva l’ora più terribile della sua vita: ricordava il ponte, laggiù, fra l’ondulare dei giuncheti alla luna, e lui curvo a sentire il cuore del suo padrone morto…
Eppure si sentiva sollevato, come uno che dopo lungo errare in luoghi impervi ritrova la via smarrita, il punto donde è partito.
«Ma tu, non vai?», domandò il cieco sempre immobile al suo posto.
«Andrò quando Dio comanda. Adesso accendo il fuoco perché bisogna passare qui la notte.»
Andò in cerca di legna: il vento infuriava sempre più e le nuvole salivano e scendevano dall’Orthobene, giù e su come torrenti di lava, come colonne di fumo, spandendosi su tutta la valle: ma sopra le alture di Nuoro una striscia di cielo rimaneva di un azzurro triste di lapislazzuli e la luna nuova tramontava rosea fra due rupi.
Ritornando verso la tettoia Efix vide il cieco che s’era mosso e stava curvo sul compagno, chiamandolo a nome. Piangeva e cercava l’involto delle monete. Trovato che l’ebbe se lo cacciò in seno e continuò a piangere. Passarono la notte così. Il cieco raccontava le sue vicende, alternandole a racconti della Bibbia, e il suo dolore si calmava rapido, come un male violento che passa presto.
«Cosa credi, fratello mio? Io son nato ricco, mio padre era come Giacobbe, ma senza tanti figli, e diceva: non importa che mio figlio sia cieco, i suoi occhi son d’oro (alludeva alle sue ricchezze) e ci vedrà lo stesso. E mia madre, che aveva una voce dolce come un frutto, mi ricordo, diceva: basta che il mio Istène si conservi innocente, tutto il resto non importa. E così ti dico, fratello mio, mi hanno mangiato la roba, morto mio padre e mia madre, mi hanno piluccato come un grappolo d’uva, tutti, parenti e conoscenti. Dio li perdoni, mi hanno costretto ad andare ad elemosinare, ma l’innocenza l’ho conservata, così ti dico: io non ho fatto mai male a nessuno. Ma il Signore mi ha sempre aiutato: prima Juanne Maria, Dio l’abbia in gloria, poi questo, sono stati i miei compagni, i miei fratelli, come gli angeli che accompagnavano Tobia. Adesso…»
«Anche adesso la compagnia non ti mancherà», disse Efix con voce grave. «Ma cosa intendi quando dici che sei innocente?»
«Che cammino verso l’eternità», disse il cieco sottovoce.
«Vado verso una porta che mi sarà aperta a due battenti, e non penso ad altro. Se ho un pane me lo mangio, se non l’ho sto zitto. Non ho mai toccato la roba altrui, non ho mai conosciuta la donna. Juanne Maria me ne condusse una accanto, una volta. Io sentii che odorava di male e mi buttai per terra come passasse il vento. Che devo fare, anima mia? Se non mi salvo l’anima che cosa ho d’altro, fratello caro?»
«Ma i denari, a questo morto, glieli hai presi, malanno!», disse Efix.
«Erano i miei. Che fanno i denari addosso a un morto? Così ti dico: no, io non ho rubato né sparso mai il sangue. Neppure i fratelli di Giuseppe sparsero il sangue: Giuda disse loro: vendiamolo meglio agli Ismaeliti piuttosto che ucciderlo. E così fecero. La sai tu, tutta la storia di Giuseppe Ebreo? Mi dispiace che te ne vai, se no te la racconterei.»
«No, non me ne andrò», disse Efix, «io ti accompagnerò, d’ora in avanti: ci porteremo per mano l’uno con l’altro.»
Il cieco abbassò un momento la testa, palpando l’involto delle monete: non parve meravigliato della decisione dello sconosciuto. Solo gli domandò:
«Sei un mendicante anche tu?».
«Sì», disse Efix, «non te ne sei accorto?»
«Allora va bene; prendi, tienilo tu.»
E gli porse l’involto del denaro.
Capitolo quattordicesimo
Di là andarono alla Festa dello Spirito Santo. Il cieco sapeva bene il tempo d’ogni festa e l’itinerario da seguire ed era lui che guidava il compagno.
Passando per Nuoro Efix lo condusse verso il Molino, lo lasciò appoggiato a un muro e andò a salutare Giacinto.
«Parto per luoghi lontani. Addio. Ricorda la tua promessa.»
Giacinto pesava un sacco di orzo macinato; sollevò gli occhi con le palpebre bianche di farina e sorrise.
«Che promessa?»
«Di pesar bene», disse Efix, e se ne andò.
Pesato il sacco, Giacinto balzò fuori e vide i due mendicanti allontanarsi tenendosi per mano pallidi e tremuli tutti e due come malati. Chiamò, ma Efix gli fece solo un segno di addio senza voltarsi.
Appena fuori del paese cominciarono le questioni, perché il cieco, sebbene avesse la bisaccia colma di roba, voleva chiedere l’elemosina ai passanti, mentre Efix osservava:
«Perché chiedere, se ce ne abbiamo?».
«E domani? Tu non pensi al domani? E che mendicante sei tu? Si vede che sei nuovo.»
Allora Efix s’accorse che non voleva chiedere perché si vergognava, e arrossì della sua vergogna.
Il tempo s’era fatto cattivo. Verso sera cominciò a piovere e i due compagni s’avvicinarono a una capanna di pastori; ma dentro non li vollero, e dovettero ripararsi sotto una tettoia di frasche a fianco della mandria. I cani abbaiavano, un velo triste circondava tutta la pianura umida, e la pioggia e il vento smorzavano il fuocherello che Efix tentava di accendere.
Il cieco restava impassibile, fermo sotto la sua maschera dolorosa. Seduto – non si coricava mai – con le braccia intorno alle ginocchia, coi grandi denti gialli lucidi al riflesso del fuoco, le palpebre violette abbassate, continuava a raccontare le sue storie.
«Tu devi sapere che tredici anni belli e lunghi occorsero per fabbricare la casa del Re Salomone. Era in un bosco chiamato il Libano, per le piante alte di cedro che là crescevano. Luogo fresco. E tutta questa casa era fatta di colonne d’oro e d’argento, con le travi di legno forte lavorato, e il pavimento di marmo come nelle chiese; in mezzo alla casa c’era un cortile con una fontana che dava acqua giorno e notte, e i muri erano tutti di pietre fini, segate a pezzi uguali come mattoni. Le ricchezze che c’eran dentro non si possono contare: i piatti erano d’oro, i vasi d’oro, e tutta la casa era ornata di melagrane e di gigli d’oro; anche i collari dei cani eran d’oro e le bardature dei cavalli d’argento e le coperte di scarlatto. E venne la regina Saba, la quale aveva sentito raccontare di queste cose fino all’altro capo del mondo, ed era gelosa, perché ricca anche lei, e voleva vedere chi era più ricco. Le donne son curiose…»