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Questa condotta del compagno addolorava Efix: a volte se ne sentiva tanto nauseato che si proponeva di abbandonarlo, ma ripensandoci gli sembrava che la sua penitenza fosse più completa così, e diceva a se stesso:

«È come che conduca un malato, un lebbroso. Dio terrà più in conto la mia opera di misericordia».

Per strada raggiunsero altri mendicanti che si recavano alla festa: tutti salutarono il cieco come una vecchia conoscenza, ma guardarono Efix con occhi diffidenti.

«Tu sei forte e potente ancora», gli disse un giovane sciancato, «come va che chiedi l’elemosina?»

«Ho un male segreto che mi consuma e mi impedisce di lavorare», rispose Efix, ma ebbe vergogna della sua bugia.

«Dio comanda di lavorare finché si può: potessi lavorare, io; oh, come sono felici quelli che possono lavorare!»

Efix pensava a Giacinto, divenuto allegro e buono dopo che aveva trovato da lavorare, e si domandava con rammarico se non aveva ancora una volta errato abbandonando le sue povere padrone.

Così andava andava ma non trovava pace; e il suo pensiero era sempre laggiù, fra le canne e gli ontani del poderetto. Specialmente alla sera, se un usignuolo cantava, la nostalgia lo struggeva.

«Che penserà don Predu che mi aspetta con la risposta di Noemi? Ma Dio provvederà: e provvederà bene, adesso che io col mio peccato mortale e con la mia scomunica sono lontano da «loro».»

E andava, andava, in fila coi mendicanti, su, su, attraverso la valle verde di Mamojada, su, su, verso Fonni, per i sentieri sopra i quali, nella sera nuvolosa, i monti del Gennargentu incombevano con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe ciclopiche, di città argentee, di boschi azzurri coperti di nebbia; ma gli sembrava che il suo corpo fosse come un sacco vuoto, sbattuto dal vento, lacero, sporco, buono solo da buttarsi fra i cenci.

E i suoi compagni non erano di più di lui. Camminavano, camminavano, non sapevano dove, non sapevano perché; i luoghi di spasso ove andavano erano per loro indifferenti, non più lieti né tristi delle solitudini ove facevano tappa per riposarsi o per mangiare.

Eppure litigavano fra loro, urlavano parole oscene, parlavano male di Dio, si invidiavano: avevano tutte le passioni degli uomini fortunati. Efix, stanco morto, con la febbre fin dentro le ossa, non tentava di convertirli, e neppure sentiva pietà di loro; ma gli pareva di camminare in sogno, portato via da una compagnia di fantasmi, come tante volte laggiù nelle notti del poderetto; era già morto ed errava ancora per il mondo, scacciato dai regni di là.

A Fonni, dove i mendicanti si collocarono nel cortiletto intorno alla Basilica piena di gente di lontani paesi, egli cominciò a provare un nuovo tormento. Aveva paura di esser riconosciuto, e tentava di nascondersi dietro il suo compagno.

Accanto a loro stavano altri due mendicanti, un vecchio cieco e un giovane che prima d’arrivare si era punto il petto sotto la mammella destra sfregandovi su il latte di un’erba velenosa per formarvi un gonfiore che esponeva alla folla come un tumore maligno.

Efix provava rabbia per quest’inganno, e quando le monete cadevano nel cappello del suo compagno, arrossiva sembrandogli di ingannare anche lui i pietosi.

E le monete cadevano, cadevano. Egli non aveva mai immaginato che ci fossero tanti pietosi, al mondo: le donne soprattutto erano generose, e un’ombra dolce velava i loro occhi ogni volta che il falso tumore del mendicante giovane appariva gonfio e scuro come un fico tra le pieghe della camicia slacciata.

Quasi tutte si fermavano, col viso reclinato, interrogando. Alcune erano alte, sottili, fasciate di orbace, coi grembiali ricamati di geroglifici gialli e verdi e i cappucci di scarlatto, e pareva venissero di lontano, dall’antico Egitto: altre avevano i fianchi potenti, il viso largo con due pomi maturati per guance, la bocca carnosa, ardente e umida come l’orlo d’un vaso di miele.

Efix rispondeva a occhi bassi alle loro domande, e raccoglieva con tristezza l’elemosina.

Ma anche alcuni uomini si fermarono intorno al vecchio cieco e al falso infermo, e uno si curvò per guardar bene il tumore.

«Sì, così Dio mi assista», disse, «era proprio così. Ed è campato solo un anno.»

«Un anno solo?», gridò un altro. «Ah, non mi basterebbe neanche per condurre a termine tre delle mille cose che penso. Su, prendi!»

E gettò all’infermo una moneta d’argento. Allora fu una gara a chi più offriva al condannato a morir presto: le monete piovevano sulla sua bisaccia, tanto che il compagno di Efix diventò livido e la sua voce tremò per l’invidia. A mezzogiorno rifiutò da mangiare; poi tacque e parve meditare qualche cosa di fosco. Infatti, quando la folla si radunò nuovamente nel cortile e le donne passando si frugavano in tasca per dare l’elemosina al finto malato, egli cominciò a gridare:

«Ma guardatelo bene! È più sano di voi. s’è punto con un ago avvelenato».

Allora qualcuno si curvò a guardare meglio il falso tumore, e il mendicante, pallido, immobile, non reagì, non parlò; ma il vecchio cieco suo compagno s’alzò a un tratto, alto, tentennante come un fusto d’albero scosso dal vento; mosse qualche passo e s’abbatte: su Istène battendogli i pugni sulla testa come due martelli.

Dapprima Istène chinò la testa fin quasi a mettersela fra le ginocchia; poi si sollevò, afferrò le gambe del suo assalitore e lo scosse tutto e non riuscendo ad abbatterlo gli morsicò un ginocchio. Non parlavano e il loro silenzio rendeva la scena più tragica: dopo un momento però un grappolo di gente fu sopra di loro e gli strilli delle donne s’unirono alle risate degli uomini.

«Io però vorrei sapere come ha fatto a vederlo!»

«Ma se non è cieco! Malanno li colga tutti, fingono dal primo all’ultimo.»

«E io gli ho dato tre volte nove reali! Come te lo hai fatto il tumore?… Dimmelo, ti do altri nove reali; che così me lo faccio anch’io per non andare al servizio militare.»

«Guarda che vengono i soldati.»

«State zitti: roba da niente.»

La gente si divise per lasciar passare i carabinieri: alti, col pennacchio rosso e azzurro svolazzante come un uccello fantastico, stettero sopra i due mendicanti raggomitolati per terra.

Il vecchio tremava di rabbia, ma non apriva bocca; l’altro aveva ripreso la sua posizione e disse con voce triste che non sapeva nulla, che non si era mosso, che aveva sentito un uomo piombargli addosso come un muro che crolla.

Li fecero alzare, li portarono via. La folla andò loro dietro come in processione. Efix seguiva anche lui, ma le gambe gli tremavano, un velo gli copriva gli occhi.

«Adesso arrestano anche me, e vengono a sapere chi sono, e vengono a sapere tutto e mi condannano.»

Ma nessuno badava a lui, e dopo che i due ciechi furono dentro in caserma la gente se ne andò ed egli rimase solo, a distanza, seduto su una pietra ad aspettare.

Aveva paura ma per nulla al mondo avrebbe abbandonato il cieco. Rimase lì un’ora, due, tre. Il luogo era silenzioso: la gente era giù alla festa e il villaggio in quell’angolo pareva disabitato. Il sole batteva sui tetti di schegge delle casette basse e umili come capanne, il vento del pomeriggio portava un odore di erbe aromatiche e qualche grido, qualche suono lontano.

Quella pace aumentava il turbamento di Efix. Per la prima volta gli appariva chiaro, come la roccia là sui monti attraverso l’aria diafana, l’errore della sua penitenza. No, non era questo ch’egli aveva sognato.

E le sue povere padrone che pativano laggiù, sole, abbandonate? Per la prima volta pensò di tornare, di finire i suoi giorni ai loro piedi come un cane fedele. Tornare, condannarsi anche l’anima, ma non farle soffrire: questa era la vera penitenza. Ma non poteva abbandonare il compagno. Ed ecco che la porta della caserma si apre e i due ciechi ne escono, tenendosi per mano come fratelli.