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Efix andò loro incontro, prese per mano il suo compagno. Così in fila tornarono al cortile della Basilica, e vi fecero il giro cercando il falso malato. La gente ballava e suonava, il tramonto tingeva di rosa il campanile, i tetti, gli alberi intorno; dalla chiesa usciva un salmodiare di laudi che accompagnava il motivo della danza, e un profumo d’incenso che si mescolava all’odore degli orti.

Ma per quanto lo cercassero, il finto malato non si trovò nel cortile, né in chiesa e neppure nelle strade attorno. Qualcuno disse che era scappato per paura dei carabinieri. Così Efix rimase con tutti e due i ciechi.

Capitolo quindicesimo

Se li tirò addietro per molto tempo.

Di festa in festa camminavano, o soli o in fila con altri mendicanti, come condannati diretti a un luogo di pena irraggiungibile.

Le feste si rassomigliavano: le principali erano di primavera e di autunno, e si svolgevano attorno alle chiesette campestri solitarie, sui monti, sugli altipiani, sull’orlo delle valli. Allora, nel luogo tutto l’anno deserto, nei campi incolti e selvaggi, era come una improvvisa fioritura, un irrompere di vita e di gioia. I colori vivi dei costumi paesani, il rosso di scarlatto, il giallo delle bende, il cremis ardente dei grembiali, brillavano come macchie di fiori tra il verde dei lentischi e l’avorio delle stoppie.

E dappertutto si beveva, si cantava, si ballava, si rissava. Efix, vestito anche lui come gli altri mendicanti, si portava addietro i due ciechi e gli sembrava fossero il suo destino stesso: il suo delitto e il suo castigo.

Non li amava, ma li sopportava con infinita pazienza.

Anch’essi non lo amavano ma erano gelosi l’uno dell’altro per le attenzioni di lui, e litigavano continuamente.

In agosto e settembre fu un andare continuo, un correre affannoso. Dapprima salirono sul monte Orthobene, per la Festa del Redentore.

Era d’agosto, la luna grande rossa sorgeva dal mare e illuminava i boschi. Di lassù, sì, Efix vedeva il suo Monte lontano; e passò la notte a pregare, sotto la croce nera che pareva unisse il cielo azzurro alla terra grigia. All’alba s’udì un salmodiare lontano; una processione salì dalla valle e in un attimo le rocce si coprirono di bianco e di rosso, i cespugli fiorirono di volti di fanciulli ridenti, e sotto gli elci i vecchi pastori s’inginocchiarono come Druidi convertiti.

Sopra l’altare tagliato sulla viva pietra il calice scintillò al sole, e il Redentore parve indugiare prima di spiccare il volo dalla roccia, piantando la croce fra la terra grigia e il cielo azzurro. s’udì qualcuno piangere forte; era un mendicante fra due ciechi, dietro un cespuglio. Era Efix.

In settembre salirono sul Monte Gonare. Il tempo era di nuovo brutto, sconvolto da violenti temporali: rivoli d’acqua torbida solcavano le chine, sotto i boschi contorti dal vento, e tutto il monte sussultava per il rombo dei tuoni. Ma i fedeli accorrevano egualmente; salivano da tutti i sentieri tortuosi, da tutte le strade serpeggianti, affluendo alla chiesetta come il sangue che dalle vene va su al cuore.

Da una nicchia di pietre ove s’era rifugiato coi compagni Efix vedeva le figure passare fra la nebbia come sopra le nuvole, e la storia del Diluvio Universale che il cieco giovane raccontava gli sembrava la loro storia. Ecco, alcuni patriarchi s’erano salvati e si rifugiavano sul Monte: venivano su con le loro donne e i loro figli, ed erano tristi e lieti in pari tempo perché avevano tutto perduto e tutto salvato.

Le donne specialmente guardavano dall’alto dei cavalli, dalla cornice dei loro scialli, coi grandi occhi smarriti eppure a tratti scintillanti di gioia: qualche cosa le spaventava, qualche cosa le rallegrava, forse il loro stesso spavento. E gridi lontani risuonavano fra la nebbia come nitriti di cavalli selvaggi in corsa col vento.

Efix aveva sempre paura d’esser riconosciuto sebbene vestito da borghese e con la barba grigia ispida come una mezza maschera fatta di pelo d’asino: guardava le figure che passavano sul sentiero davanti a lui, se qualcuna gli era nota, e infatti d’improvviso si piegò chiudendo gli occhi come i bambini quando vogliono nascondersi.

Un uomo un po’ abbandonato sopra un cavallo nero saliva lentamente, tutto ricoperto da un gabbano d’orbace foderato di scarlatto. Il vento sollevava le falde di questa specie di mantello spagnuolo e lasciava vedere la bisaccia ricamata e le grosse gambe del cavaliere con gli sproni lucidi come d’argento. Il cappuccio ombreggiava un viso bonario e sarcastico che si volse ai mendicanti e sogghignò lievemente mentre la mano gettava alcune monete.

Efix riaprì gli occhi e piano piano si sollevò.

«Sai chi è quello?», disse al cieco giovane. «È il mio padrone!»

Cessata la pioggia i tre compagni ripresero a salire, silenziosi, curvi, come cercando qualche cosa smarrita nel sentiero; le nuvole correvano sopra le rocce e le macchie e gli alberi si contorcevano al vento, folli dal desiderio di staccarsi dalla terra e seguirle: il tuono rombava ancora, tutto era grande di agitazione e d’angoscia, ed Efix si sentiva preso dal turbine come una foglia secca.

Presero posto accanto ad una delle croci che segnano il sentiero.

Il vento passava impetuoso, ma sul tardi il sole apparve fra le nubi squarciandole e respingendole fino all’orizzonte, e tutto brillò attorno ai monti e alle valli ove la nebbia si raccolse in laghi argentei luminosi.

I mendicanti si scaldavano al sole ed Efix raccoglieva le elemosine tremando a ogni rumore di passo per paura di rivedere don Predu; eppure di tanto in tanto sollevava la testa come ascoltando una voce lontana.

Gli pareva d’essere ancora seduto davanti alla sua capanna nel poderetto, e sentiva il frusciare delle canne, ed era la voce del suo cuore che gli diceva:

«Efix, se stai lì per vera penitenza, perché temi d’esser riconosciuto? Alzati quando passa il tuo padrone e salutalo».

E d’improvviso un senso di gioia lo fece balzare, lo penetrò tutto come il sole che gli asciugava le vesti e scaldava le sue membra intirizzite: ecco, egli pensava di nuovo alle sue padrone, le amava ancora, e aspettava don Predu per domandar notizie di loro.

Ma don Predu non scendeva.

Veniva giù, dopo aver ascoltata la messa, una catena di fanciulle paesane belle come rose, l’una appresso l’altra strette ridenti.

«Hai veduto quell’uomo grosso che s’e comunicato?», disse una. «È un nobile, un riccone, ammaliato.»

«Sì, lo so. Lo ha fatto ammaliare una ragazza povera che egli doveva sposare e non ha sposato.»

«Va’, e impiccati, Maria, che dici? Se lo ammaliava lo ammaliava per farsi sposare…»

«E non mi spingere, per questo! Va’ a romperti il collo, Franzisca Bè!»

Coi denti scintillanti nella bella bocca piena di male parole, passavano davanti ad Efix: qualcuna s’indugiava a gettare una monetina ai mendicanti e il vento sollevava i lembi del suo fazzoletto ricamato.

Efix aspettava don Predu. Scendevano i patriarchi, le donne taciturne, i giovani dalle ginocchia elastiche, i piccoli pastori dagli occhi tristi di solitudine: don Predu non si vedeva.

Efix aspettava. Ma dopo mezzogiorno la gente era già tutta ritornata alle capanne giù nella radura, e don Predu non era ancora passato.

Allora Efix fece salire i compagni fino alla chiesetta davanti alla quale solo pochi giovani si aggrappavano alla roccia per guardare le corse dei barberi a mezza costa. Il vento pareva portarsi via lungo il sentiero laggiù, i cavalli lunghi montati da paesani incappucciati.

Efix fece sedere i ciechi contro il muro ed entrò nella chiesetta avanzandosi in punta di piedi fino ai gradini dell’altare ove don Predu inginocchiato immobile pregava col viso sollevato, i capelli azzurrognoli nella penombra dorata dai ceri, una falda rossa del gabbano rivoltata, lo sprone al piede, simile in tutto ai Baroni in pellegrinaggio quali il servo li aveva veduti dipinti in qualche antico quadro della Basilica.