«Che volete?»
L’uomo si tolse il berretto.
«Zio Efix!», gridò il ragazzo, e riprese a suonare, parlando e ridendo nel medesimo tempo. «Ma non eravate morto? E chi diceva che eravate in America e diventato ricco, e che mandavate tanti denari alle vostre padrone. Adesso il guardiano qui, sono io: se voglio scacciarvi come un ladro posso farlo. Ma non lo faccio. Volete dell’uva? Prendetevela. Il mio padrone, don Predu, se ne infischia, di questo pezzo di terra: ne ha tanti altri, di poderi. Quello grande, di «Badde Saliche», quello sì, ne dà prodotto. Le frutta di qui, il mio padrone le manda in regalo alle sue cugine, le vostre padrone: ma esse stanno sempre chiuse dentro come il riccio nella sua scorza. Oh, zio Efix, vi devo dire una cosa: l’altra notte – di notte sto chiuso nella capanna, perché ho paura degli spiriti, e sempre sento nonna raspare alla porta – l’altra notte che spavento! Ho sentito una cosa molle agitarsi intorno ai miei piedi. Ho gridato, ho sudato: ma poi all’alba mi accorsi che era una lepre ferita: sì, presa al laccio era riuscita a scappare e stava lì con la zampetta rotta e mi guardava con due occhi da cristiana. Gliel’ho fasciata, la zampetta; ma poi ha avuto la febbre; scottava fra le mie mani come un gomitolo di fuoco; e s’è fatta nera nera ed è morta.»
Efix si era seduto davanti alla capanna guardando lontano.
«Che ne dici tu», domandò gravemente. «don Predu mi ripiglierà al suo servizio?»
Il ragazzo si fece minaccioso.
«E allora dovrebbe scacciarmi? E io come faccio, allora? Grixenda si sposa e se ne va. E io cosa faccio, intanto? Vado a chiedere l’elemosina? No, andateci voi, che siete vecchio.»
«Hai ragione», disse Efix, e chinò la testa. Ma la sua remissione gli rese benevolo il servetto.
«Don Predu è così ricco che può prendervi lo stesso; vi può mandare negli altri poderi, perché a me piace star qui. Qui è un bel posto: lo dice anche Grixenda.»
«Che fa Grixenda?»
«Cucisce il suo vestito da sposa.»
«Dimmi, Zuannantoni, don Giacinto è venuto in paese?»
«Mio cognato», disse il ragazzo con orgoglio, «è venuto, sì, questo luglio scorso. Grixenda stava sempre male: un altro poco e la trovava morta. Sì, è venuto…»
Tacque, col viso reclinato sulla fisarmonica, gli occhi gravi di ricordo.
«Dimmi tutto; puoi dirmelo, Zuannantò. Io sono come di famiglia.»
«Sì, ecco, vi dirò. Dunque Grixenda stava male; si consumava, come un lucignolo. Di notte aveva la febbre: s’alzava come una matta e diceva: voglio andare a Nuoro. Ma quando si trattava di aprir la porta non poteva. Capite: c’era fuori la nonna che spingeva la porta e le impediva di andare. Allora, una volta, sono andato io, a Nuoro. Ho trovato mio cognato, in un luogo che pare l’inferno: nel Molino. Gli dissi tutto. Allora egli domandò tre giorni di permesso e venne con me. Aveva preso un cavallo a nolo, perché costa meno della carrozza; e mi prese in groppa: era bello, andare così, pareva di esser giganti. Così ha chiesto Grixenda in moglie, e così per i Santi si sposano.»
«A chi l’ha chiesta: in moglie?»
«Non lo so; a lei stessa!»
«Dimmi, Zuannantoni, don Giacinto è dalle sue zie, dalle mie padrone?»
Il ragazzo esitò nuovamente.
«Si», disse poi, «c’è stato. Credo che abbiano litigato perché venne fuori con gli occhi rossi, come avesse pianto; Grixenda lo guardava e rideva, ma stringeva i denti. Egli disse: questa e l’ultima volta che mi vedono.»
Efix non fece altre domande. Passò la notte nella capanna e siccome era venuto su un gran vento e le canne del ciglione gemevano come anime in pena, destando paura al piccolo guardiano, egli cominciò a raccontare le storie della Bibbia, imitando l’accento del cieco.
«Sì, c’era un re che con la scusa che gli alberi sono spiriti li faceva adorare e anche gli animali e persino il fuoco. Allora il vero Dio, offeso, fece sì che i servi di questo re diventassero così cattivi che congiurarono per uccidere il loro padrone. Sì, egli faceva adorare un Dio tutto d’oro: per questo è rimasto nel mondo tanto amore del denaro e i parenti, persino, uccidono i parenti, per il denaro. Persino le anime innocenti adorano il denaro.»
Poi cominciò a descrivere il tempio e i palazzi del Re Salomone. Zuannantoni si addormentò ch’egli raccontava ancora. Fuori le canne dei ciglione frusciavano con tale violenza che pareva combattessero una battaglia.
All’alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide centinaia pendere spezzate, con le lunghe foglie sparse per terra come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch’esse, pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole con le loro foglie ferite.
«Prendetevi dell’uva, zio Efix», gli disse il ragazzo, salutandolo pensieroso: «se don Predu vi rimanda qui son contento: così passeremo il tempo a contar le storie. E andate da Grixenda a salutarla».
Ed ecco Efix che risale la strada verso il paese. L’alba è quasi fredda e le colline bianche sembrano coperte di neve. I monticelli sopra i paesetti sparsi per la pianura, dopo il Castello, fumano come carbonaie coperte: e tutto è silenzio e morto nel mattino roseo. Ma Efix ritrovava la sua anima, e gli sembrava di tornare alla casa del suo dolore come il figliol prodigo, dopo aver dissipato tutte le sue speranze.
Andò dritto dall’usuraia, e rise accorgendosi che sebbene non lo riconoscesse subito ella lo accoglieva benevolmente credendolo uno straniero, un servo mandato da qualche proprietario per chiedere denaro.
«Kallina, i corvi ti becchino, non mi riconosci? Anche tu sei diminuita, però.»
Ella aveva le scarpette in mano; le lasciò cadere una dopo l’altra, poi si curvò a riprenderle.
«Efix, vedi? Come io ti ho maledetto così sei andato! Hai persino mutato di vesti. Rammentati quando volevi massacrarmi.»
«Sono sempre a tempo, se non smetti! Dimmi, come stai?»
«Non troppo bene. Da qualche tempo ho sempre male di testa, e il dolore e l’insonnia mi hanno ridotta così, piccola, curva, come succhiata dal vampiro.»
«È giusto!», pensava Efix; ma non lo disse.
«È un male da cani, il male di testa, Efix mio. Ho persino promesso di andare in pellegrinaggio a San Francesco, adesso, in ottobre…»
«Senti», disse Efix, che s’era seduto davanti al focolare e non accennava ad andarsene, «è inutile che tu vai in pellegrinaggio: se hai da far penitenza falla in casa tua.»
«Io non ho da far penitenza! Se vado, vado per devozione. La mia anima è davanti a Dio, non davanti a un pari.»
Egli abbassò la testa.
«Senti», riprese, «io ho bisogno di vesti e di denari. Tu devi aiutarmi, Kallina: se vuoi tu puoi farlo. Io sono come il soldato ch’è stato in guerra: torno, ma non posso tenere queste vesti.»
«Dimmi almeno, dove sei stato?»
«Così, ho voluto un poco girare il mondo. Sono stato fino in Oriente, dove c’era il tempio e la casa del Re Salomone… questa casa era tutta d’oro, con le porte che avevano per pomi melagrane d’oro… e i piatti e i vasi erano d’oro e persino le chiavi e i pali per fermare le porte erano d’oro…»
La donna lo guardava di sottocchi, mentre infilava i lacci nuovi alle sue scarpette senza buttar via i vecchi, che a legare qualche cosa ancora potevan servire. Perché egli parlava così, con un accento cadenzato da mendicante? Si burlava di lei, o aveva la febbre?
«Efix, anima mia, il girare il mondo ti ha consumato le scarpe e il cervello!»
Tuttavia gli prestò i denari.
Egli però non se ne andò.
«Non posso uscire così, presentarmi alle serve beffarde di don Predu. Bisogna che tu mi procuri le vesti. Va’: cosa pensi quando non dormi? Va’, va’, sei cristiana anche tu.»
«Come, anch’io? Più cristiana di te, anima mia: io non ho mai lasciato la mia casa per correre il mondo da vecchia…»
«Se non smetti prendo il palo, Kallì, bada!»