Per tutto il giorno continuarono a insolentirsi, un po’ scherzando, un po’ sul serio: ma nel pomeriggio ella uscì e comprò un costume quasi nuovo da una donna il cui marito era andato in America.
Verso sera Efix ritornò dalle sue padrone. Sì, verso sera, come dopo una giornata di libertà passata girovagando ozioso e scontento. Tutto era tranquillo e triste lassù; il Monte s’affacciava sopra la casa nera, sul cielo verdolino del crepuscolo, la luna nuova cadeva sopra il Monte, la stella della sera tremolava sopra la luna.
Il portone era chiuso, l’erba cresceva lungo il muro e sugli scalini come davanti a una casa abbandonata: ed Efix ebbe paura a picchiare.
Vide la porticina di Grixenda che brillava come un rettangolo d’oro sul muro nero, e ricordò l’incarico di Zuannantoni.
Grixenda stava davanti alla fiammata ad asciugarsi le sottane bagnate. Era scalza e le sue gambe dritte luccicavano come fossero il bronzo. Vedendo l’uomo lasciò cadere le sottane e rise, gridando di gioia nel riconoscerlo.
«Come, Grixenda! Tu vai ancora al fiume? Lo sposo te lo permette?»
«E lui non lavora? È forse un signore, lui? Se fosse stato un signore io sarei sottoterra… Ebbene, non venite avanti? Sedetevi: vi pesa, quella bisaccia? E piena d’oro? Avete fatto fortuna, voi, zitto, zitto, maligno che siete!»
Egli sedette e mise la bisaccia per terra, e guardava Grixenda, e Grixenda lo guardava maliziosa lasciandogli capire che sapeva la verità.
«Ma anche noi, zio Efix, anche noi, io e Giacinto, qualche cosa faremo. Possiamo anche diventar ricchi, zio Efix; chi lo sa? Tutto è possibile nel mondo: io credo che tutto sia possibile.»
«E non siete già ricchi? Chi più ricchi di voi?»
Ella si chinò su di lui, graziosa e infantile come un tempo.
«È questo che dicevo, sempre! Quando le vostre dame non volevano, che io e Giacinto ci sposassimo, perché io son povera, io dicevo: non son giovane? Non gli voglio bene? Forse che donna Noemi e don Predu, con tutta la loro roba, sono più ricchi di noi? Di anni, sì, se vogliono, non di altro!»
Efix trasalì.
«Si sposano?»
«Si sposano, sì! Egli si consumava come mi consumavo io questa primavera scorsa. Dicevano ch’era ammaliato. Era ammaliato, sì! Malìa d’amore. Andò persino ad Oliena a consultare la fattucchiera. Ultimamente, la settimana scorsa, è andato alla Madonna di Gonare, in pellegrinaggio, ed ha fatto un’offerta di tre scudi, per ottenere il miracolo. Così dicono i maligni!»
Efix guardava pensieroso per terra, fra le sue ginocchia.
«Devo tornare?», si domandava. «Non crederanno sia il vento della buona fortuna che mi riporta?»
E d’improvviso, per un attimo, gli dispiacque che Noemi avesse acconsentito prima ch’egli tornasse. Ma subito s’alzò pentito umiliato. Ah, com’era peccatore ancora!
«Tu credi che don Predu sia là?», domandò volgendosi prima di uscire.
«Io sono qui, non sono là, zio Efix!», disse Grixenda, correndogli appresso ridente; «e non posso neppure dire: vado a guardare perché le vostre padrone chiudono a doppio giro il portone quando mi vedono!»
Egli andò; ma ancora una volta il suo cuore palpitava convulso, e gli parve che i colpi battuti al portone gli si ripercotessero dentro le viscere.
Capitolo sedicesimo
Fu Noemi ad aprire. Efix se la vide apparire davanti, sullo sfondo glauco del cortile, alta alta, sottile, col viso bianco: Lia fanciulla, Lia risorta.
Lo guardò bene, prima di lasciarlo entrare, come si guarda uno sconosciuto, poi disse solo: «oh, oh, sei tu?» ma bastò quest’espressione di sorpresa diffidente e un po’ ironica, per aumentare l’umiliazione e il turbamento di lui.
«Ebbene, sono tornato, donna Noemi mia», disse entrando e seguendola attraverso il cortile. «Il vagabondo è tornato. E donna Ester come sta? Mi permette di farle una visita?»
Ecco, nella penombra glauca le cose stavano immobili al loro posto; il balcone, su, nero sul fondo grigio del muro, il pozzo coi fiori rossi, la corda sulla scala.
In cucina c’era luce, ma non la luce fiammante della casa di Grixenda: un lumino funebre sopra la panca antica, in mezzo a una grande ombra.
No, nulla era mutato: tutto era morto ancora. Ed Efix pensò con dolore:
«Non dev’esser vero che donna Noemi ha acconsentito».
Istintivamente cercò di attaccare la bisaccia al piuolo, ma il piuolo non c’era: nessuno lo aveva più rimesso ed egli tenne con sé la bisaccia come un ospite che deve presto ripartire.
Donna Ester leggeva tranquilla seduta su uno sgabellino davanti alla panca antica, ma d’improvviso il gatto posato sulla sua ombra accanto al lume e che seguiva con gli occhi i movimenti delle mani di lei, le saltò in grembo come volesse nascondersi e di là balzò sotto la panca: ella sollevò la testa, vide lo sconosciuto e cominciò a fissarlo con gli occhi scintillanti e il libro che le tremava fra le mani.
«Ebbene, sì, sono io, padrona mia! Sono tornato. Il vagabondo è tornato. Che ne dice, donna Ester? Come va la salute?»
«Efix! Efix! Efix!», ella balbettava.
«Proprio Efix! Ha male agli occhi, donna Ester, che tiene gli occhiali?»
«Tu, Efix! Siedi. Sì, ho avuto male agli occhi dal troppo piangere.»
Ma Noemi li guardava tutti e due coi suoi occhi cattivi e pareva divertirsi alla scena.
«Sì, Ester! Hai gli occhiali perché oramai sei vecchia.»
«Siedi», invitò anche lei, battendo la mano sulla panca, ed Efix sedette accanto alla vecchia padrona tutta tremante di sorpresa. Sulle prime non seppero cosa dirsi: egli stringeva a sé la bisaccia e chinava la testa vergognoso; ella si levò gli occhiali, li chiuse fra le pagine del libro, parve volesse appoggiarsi al fianco del servo.
Finalmente volsero tutti e due il viso a guardarsi ed ella scosse la testa con un cenno di rimprovero.
«Bravo! Gira gira sei tornato! Ma perché mai una riga, un saluto? Eppure gente d’America ne è venuta!»
Efix aprì la bocca per rispondere, ma vide Noemi che rideva come se sapesse anche lei la verità, e tacque ancora più umiliato.
«E sei andato via così, Efix! Come se ti avessimo offeso, senza dire una parola, Efix! E pensa, pensa, io dicevo sempre a me stessa: perché Efix ha fatto così? Si può finalmente sapere il perché?»
«Cose del mondo! s’invecchia, si rimbambisce», egli rispose con un gesto vago. «Adesso son qui… Non parliamone più.»
«E adesso, che cosa conti di fare? Tornerai da Predu? O, come dice la gente, è vero che sei diventato ricco? Ma perché non metti giù quella bisaccia? Almeno un boccone lo prenderai, qui.»
«Devo andare, donna Ester mia… Ero venuto solo per salutarla.»
«Tu starai qui fino a domani», disse Noemi, e con un gesto quasi felino gli tolse la bisaccia e la mise più in là sulla panca.
Si guardarono: ed egli comprese che avevano da parlarsi, loro due, da riallacciare un discorso interrotto.
«Efix, senti, tu almeno ci racconterai le tue vicende, poiché non hai mai scritto. Quante cose avrai da dire, adesso: oh, Efix, Efix, chi avrebbe mai creduto che da vecchio te ne andavi in giro per il mondo!»
«Meglio tardi che mai, donna Ester mia! Ma da contare c’è poco.»
«Racconta quel poco…»
«Bene, sì, le dirò…»
Noemi apparecchiava, silenziosa: ecco lo stesso canestro annerito dal tempo, levigato dall’uso; ecco lo stesso pane e lo stesso companatico. Efix mangiava e raccontava, con parole incerte, velate di menzogna timida; ma quando ebbe gettato le briciole e il fondo del bicchiere sul pavimento – poiché la terra vuole sempre la sua piccola parte del nutrimento dell’uomo – si drizzò un po’ sulla schiena e i suoi occhi si circondarono di rughe raggianti.
«Dunque, in viaggio eravamo tutti poveri diavoli: si andava, si andava, senza sapere dove si andava a finire, ma sempre con la speranza del guadagno. Si andava, in fila, come i condannati…»