«Se io davo subito la risposta a don Predu tutto era finito», pensava con un senso di sollievo; e sognava addormentandosi. Ecco un vago chiarore illumina la pianura intorno; è un anello bianco sopra un gran cerchio nero. È l’alba. I ciechi si alzano, intrecciano le loro dita, si curvano davanti a lui e lo costringono a sedere sulle loro mani ed a mettere le sue braccia intorno al loro collo: così lo sollevano, lo portano su, via, lontano, cantando, come fanno i bambini nei loro giochi.
Egli rideva: non era stato mai così felice. Ma in fondo, nella cucina scura, donna Ester e donna Noemi non si movevano dalla panca; ed ecco egli sentiva soggezione dell’una e paura dell’altra. Allora chiuse gli occhi e finse d’esser cieco anche lui. E andavano così tutti e tre, di qua e di là, su un terreno molle, cantando le laudi sacre dello Spirito Santo. Ma una mano afferrò per il di dietro il suo cappotto e fermò il gruppo. Egli si buttò giù, sussultando, aprì gli occhi e vide donna Noemi davanti a lui, col lume in mano.
«Dormivi già, Efix? Abbi pazienza; ma Ester mi disse che te ne saresti andato domani mattina presto e son tornata giù.»
Egli balzò a sedere sulla stuoia, ai piedi di lei ritta, ferma, grande col lume in mano. Un cerchio d’ombra con un anello di luce intorno, come egli aveva sognato, li circondava.
«E poi io volevo parlarti da solo, Efix. Ester non capisce certe cose. E tu hai fatto male a chiacchierare con lei: anche tu non capisci.»
Egli taceva. Capiva, sì, ma doveva tacere e fingere come uno schiavo.
«Tu non capisci e perciò parli troppo, Efix! Se tu quel giorno avessi riferito solo l’ambasciata, senza darmi dei consigli, sarebbe stato meglio. Invece abbiamo detto molte cose inutili; adesso voglio sapere solamente se è vero che tu, proprio, non hai riferito nulla a Predu del nostro discorso.»
«Nulla, donna Noemi mia!»
«Un’altra cosa ti voglio domandare, Efix; ma mi devi rispondere il vero. Tu…», esitò un momento, poi alzò la voce, «tu hai parlato di questo fatto con Giacinto? Dimmi il vero.»
«No», mentì egli con voce ferma: «le giuro, io non ne ho parlato».
«Tu allora credi che sia stato Predu a dirglielo?»
«Io credo così, donna Noemi mia.»
«Un’altra cosa. Dimmi, perché sei andato via?»
«Non lo so; pensavo appunto a questo, addormentandomi. Pensavo fosse stato il Signore a farmi andar via. Avevo paura e vergogna di presentarmi a don Predu con quella risposta. Sì, donna Noemi, perché don Predu mi aveva preso al suo servizio solo per questo, io lo capisco: egli voleva bene a lei e voleva che fossi io l’intermediario. Allora, quando lei disse di no, di no, sono scappato…»
Noemi si mise a ridere: ma un riso lieve, ben diverso dal cattivo riso di prima. Era compassione per Efix, compassione per don Predu, ma anche soddisfazione e dolcezza: mai, mai Efix l’aveva sentita ridere così. Eppure egli ricordava quel riso, quel volto curvo su lui, quell’ombra e quella luce tremula intorno: e il cuore gli batteva, gli batteva, da spezzarsi.
Lia com’era nella notte della fuga gli stava davanti.
«Un’altra cosa ancora e poi basta. Senti, tu credi Giacinto sposi davvero Grixenda?»
«Sì, è una cosa certa.»
«Quando si sposano?»
«Prima di Natale.»
Ella abbassò il lume, come per vedere bene il viso di Lui: e così illuminò bene il suo. Com’era pallida, e come il suo viso era giovane e vecchio nello stesso tempo!
L’orgoglio, la passione, il desiderio di spezzare la sua vecchia vita miserabile, e coi frantumi ricostruirsene un’altra, nuova e forte, le ardevano negli occhi.
«Sentimi, Efix», disse ritraendo il lume, «ebbene, tu dirai a Predu che lo voglio. Ma che dobbiamo sposarci subito, prima di quei due.»
Capitolo diciassettesimo
Efix era di nuovo laggiù, al poderetto. Terminata la buona stagione, raccolte le frutta, Zuannantoni, a cui il padrone aveva dato l’incarico di pascolare un branco di pecore nelle giuncaie intorno al paesetto, se n’era andato di buon grado.
Ed ecco dunque Efix di nuovo seduto al solito posto davanti alla capanna, sotto il ciglione glauco di canne. Il cielo è rosso, in alto sopra la collina bianca; passa il vento e le canne tremano e bisbigliano.
«Efix rammenti, Efix rammenti? Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo a noi come uno della nostra famiglia. Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi ma si piegherà domani e posdomani si spezzerà. Efix rammenti, Efix rammenti?»
Egli intrecciava una stuoia e pregava. Di tanto in tanto un acuto dolore al fianco lo faceva balzare dritto, rigido come se qualcuno gli infilasse un palo di ferro nelle reni; si ripiegava di nuovo su se stesso, livido e tremante, proprio come una canna al vento; ma dopo lo spasimo provava una gran debolezza, una grave dolcezza, perché sperava di morire presto. La sua giornata era finita.
Finché poté resistere rimase laggiù accanto alla terra che aveva succhiato tutta la sua forza e tutte le sue lagrime.
L’autunno s’inoltrava coi giorni dolci di ottobre, coi primi freddi di novembre; le montagne davanti e in fondo alla valle parevano vulcani; nuvole di fumo solcate da pallide fiamme e poi getti di lava azzurrognola e colonne di fuoco salivano laggiù dal mare.
Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull’orizzonte; operai invisibili lo lavoravano, costruivano case, edifizi, intere città, e subito dopo le distruggevano e rovine e rovine biancheggiavano allora nel crepuscolo, coperte di erbe dorate, di cespugli rosei; passavano torme di cavalli grigi e neri, un punto giallo brillava dietro un castello smantellato e pareva il fuoco di un eremita o di un bandito rifugiatosi lassù: era la luna che spuntava.
Piano piano la sua luce illuminava tutto il paesaggio misterioso e come al tocco di un dito magico tutto spariva; un lago azzurro inondava l’orizzonte, la notte d’autunno limpida e fredda, con grandi stelle nel cielo e fuochi lontani sulla terra, stendevasi dai monti al mare. Nel silenzio il torrente palpitava come il sangue della valle addormentata. Ed Efix sentiva avvicinarsi la morte, piano piano, come salisse tacita dal sentiero accompagnata da un corteggio di spiriti erranti, dal batter dei panni delle «panas» giù al fiume, dal lieve svolazzare delle anime innocenti tramutate in foglie, in fiori…
Una notte stava assopito nella capanna quando si svegliò di soprassalto come se qualcuno lo scuotesse.
Gli parve che un essere misterioso gli piombasse sopra, frugandogli le viscere con un coltello: e che tutto il sangue gli sgorgasse dal corpo lacerato, inondando la stuoia, bagnandogli i capelli, il viso, le mani.
Cominciò a gridare come se lo uccidessero davvero, ma nella notte solo il mormorio dell’acqua rispondeva.
Allora ebbe paura e pensò di tornarsene in paese; ma per lunga ora della notte non poté muoversi, debole, come dissanguato: un sudore mortale gli bagnava tutta la persona.
All’alba si mosse. Addio, questa volta partiva davvero e mise tutto in ordine dentro la capanna: gli arnesi agricoli in fondo, la stuoia arrotolata accanto, la pentola capovolta sull’asse, il fascio di giunchi nell’angolo, il focolare scopato: tutto in ordine, come il buon servo che se ne va e tiene al giudizio favorevole di chi deve sostituirlo.
Portò via la bisaccia, colse un gelsomino dalla siepe e si volse in giro a guardare: e tutta la valle gli parve bianca e dolce come il gelsomino.
E tutto era silenzio: i fantasmi s’erano ritirati dietro il velo dell’alba e anche l’acqua mormorava più lieve come per lasciar meglio risonare il passo di Efix giù per il sentiero; solo le foglie delle canne si movevano sopra il ciglione, dritte rigide come spade che s’arrotavano sul metallo del cielo.
«Efix, addio, Efix addio.»
Ritornò dalle sue padrone e si coricò sulla stuoia.