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«Bravo, Efix! Così va bene. Sai cosa succede, oggi?»

Egli accennò di sì, bevendo.

«Sei contento, vero, Efix? Quanto ci hai pensato, a questo giorno? Ti parrà un sogno.»

Egli accennava di sì, di sì: tutto era stato, tutto era un sogno.

Poi lo lasciarono solo, perché Noemi doveva vestirsi; ed egli sollevò la testa e si guardò attorno ma come di nascosto, continuando a far cenni di approvazione. Tutto andava bene; la festa nuziale si svolgeva in casa dello sposo, e qui nulla turbava l’antica pace. Per un’attenzione di Noemi verso il malato neppure la cucina era stata ripulita, come si usa per le nozze; la casa e il cortile erano silenziosi, il gatto stava immobile sulla panca, nero con gli occhi verdi come l’idolo della solitudine; nel silenzio si udiva il legno corroso del balcone scricchiolare e sollevando un poco di più la testa Efix rivide un’ultima volta il muro rovinato e l’erba e i fiori d’ossa dell’antico cimitero.

Ma d’improvviso una figura apparve sulla porta; alta, sottile, vestita d’uno stretto abito granato a fiori neri, aveva una ghirlanda di rose sul capo, e qua e là sul viso, sulla persona, sui piedi, qualche cosa che scintillava: gli occhi, i gioielli, le scarpette…

Egli spalancò gli occhi e riconobbe Noemi; ma dietro di lei, accomodandole le rose del cappello e le pieghe del vestito, donna Ester con le ali nere dello scialle rigettate sugli omeri gli parve l’ombra della sposa.

«Sto bene, vero?», domandò Noemi ritta davanti a lui, accomodandosi i risvolti delle maniche. «Non ti pare stretto, questo vestito? Si usa così. E guarda com’è bello, questo: è il regalo di Predu.»

Si chinò nonostante il vestito stretto e gli fece vedere il rosario di madreperla con una grande croce d’oro.

«Vedi? Era la croce di un vescovo antico: era della nonna di Predu, ch’era poi anche la nostra. Così rimane in famiglia. È bella, vero? Guarda il Cristo, pare che sorrida, mentre gli calano giù le lagrime e il sangue… E dietro, guarda…»

Efix guardava silenzioso, immobile, con le mani nere e secche aggrappate all’orlo del panno; e pareva affacciarsi, già cadavere, dal mondo di là per contemplare un’ultima volta la felicità della sua padrona. Ma ella disse, chinandosi ancora di più, con le ginocchia piegate, in modo che gli sfiorava il viso col suo viso:

«Vedi che regalo, Efix!».

Ed era pallida, nel suo vestito granato, con gli occhi cattivi pieni di lagrime.

Ma Efix non ne provò dolore.

«Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere…», disse con un soffio.

E questo fu il suo augurio.

Da quel momento non parlo più. Gli pareva di tenersi aggrappato all’orlo del panno per non cadere di là; e di vedere dall’alto del muricciuolo lo spettacolo del mondo.

Ed ecco don Predu e i parenti arrivano per portar via la sposa: entrano, si dispongono intorno nella cucina come le figure di un sogno, confusamente, ma con rilievi strani di particolari.

Don Predu è vestito di nero, un abito nuovo attillato che lo costringe a respirar forte, ma Efix non ne distingue il viso, mentre vede la bocca sarcastica del Milese, lunga, stretta, come piena di riso represso, e il ventre gonfio d’una parente delle dame, quella che deve accompagnare la sposa, e due ceri con due nastri color rosa sostenuti da due manine pallide.

E tutti sono seri come venuti a prendere lui, morto, non la padrona sposa, e camminano piano per non dargli noia.

Donna Ester, con lo scialle sciolto un po’ svolazzante sulle spalle, dispone il corteo: prima i bambini coi ceri alti in mano; poi la sposa con la parente; poi lo sposo coi parenti; in coda i pochi invitati; il Milese in ultimo pareva ridersi di tutti silenziosamente.

«Adesso mi lasciano solo», pensa Efix con un poco di amarezza. «Solo. E son io che ho fatto tutto!»

Sulla porta Noemi si volse a fargli un cenno di addio con la croce d’oro. Addio. Ed egli, come già per Giacinto, ebbe l’impressione che fosse lei a morire.

Uscivano tutti, se ne andavano: donna Ester si curvò su lui, parve coprirlo con le sue ali nere.

«Torno presto, io, appena li avrò accompagnati: bisogna che vada; sta’ quieto, fermo fermo.»

Sì, egli stava fermo al suo posto; fermo e solo. s’udiva la fisarmonica che Zuannantoni suonava in onore degli sposi, ed egli ricominciò a ricordare tante cose: il rumore del Molino, su a Nuoro, le nuvole sopra Monte Gonare, il fruscìo delle canne sul ciglione…

«Efix, rammenti? Efix, rammenti?»

Com’era diventata grande la cucina! Scura e tiepida, coi muri lontani, con sfondi misteriosi come una «tanca» di notte. L’usignuolo cantava, il cieco raccontava la storia del palazzo d’oro del Re Salomone.

«…Tutto era d’oro, come nel mondo della verità; tutto era puro, lucente. Melagrane d’oro, vasi d’oro, stuoie d’oro…» Ed egli vedeva la casa di don Predu, coi melagrani carichi di frutta, i palmizi, le stuoie coperte di grappoli d’uva e di zucche d’oro.

«Noemi starà bene… là… mangerà bene, ingrasserà, darà i denari a donna Ester per accomodare qui il balcone. Starà bene… Sarà come la Regina Saba. Ma anche lei, la Regina Saba non era contenta… Anche Noemi si stancherà della sua croce d’oro e vorrà andare lontano, come Lia, come la Regina Saba, come tutti…»

Ma questo non gli destava più meraviglia; andare lontano, bisognava andare lontano, nelle altre terre, dove ci sono cose più grandi delle nostre. Ed egli andava.

Chiuse gli occhi e si tirò il panno sulla testa. Ed ecco si trovò di nuovo sul muricciuolo del poderetto: le canne mormoravano, Lia e Giacinto stavano seduti silenziosi davanti alla capanna e guardavano verso il mare.

Gli parve di addormentarsi. Ma d’improvviso sussultò, ebbe come l’impressione di precipitare dal muricciuolo.

Era caduto di là, nella valle della morte.

Donna Ester lo trovò così, quieto, immobile sotto il panno: fermo fermo.

Lo scosse, lo chiamò, e accorgendosi ch’era morto e che lo avevano lasciato morire solo, si mise a piangere forte, con un gemito rauco che la spaventò. Cercò di calmarsi, ma non poteva; era come un’anima che piangeva entro di lei contro sua volontà: allora andò e chiuse il portone perché qualcuno non la sorprendesse a disperarsi così sul servo morto e la gente non s’accorgesse che l’avevano lasciato morire solo, mentre per la famiglia era un gran giorno di festa.

In attesa che le ore passassero rimosse il cadavere, secco e leggero come quello d’un bambino, lo lavò, lo rivestì, parlandogli sottovoce, fra una preghiera e l’altra per raccontargli come s’era svolta la cerimonia nuziale, come Noemi piangeva entrando nella sua ricca nuova dimora – piangeva tanto era felice, s’intende – come la casa era piena di regali, come la gente buttava grano e fiori fin dentro il cortile degli sposi, per augurar loro buona fortuna, come tutti insomma erano contenti.

«E tu hai fatto questo… di andartene così, di nascosto… senza dir nulla… come l’altra volta… Ah, Efix, questo non lo dovevi fare… oggi, proprio oggi!…»

Egli pareva ascoltasse, con gli occhi vitrei socchiusi, tranquillo ma deciso a non rispondere da buon servo rispettoso.

Donna Ester, ricordandosi che gli piacevano i fiori, spiccò un geranio dal pozzo e glielo mise fra le dita sul crocefisso: in ultimo ricoprì il cadavere con un tappeto di seta verde che avevano tirato fuori per le nozze. Ma il tappeto era corto, e i piedi rimasero scoperti, rivolti come d’uso alla porta; e pareva che il servo dormisse un’ultima volta nella nobile casa riposandosi prima d’intraprendere il viaggio verso l’eternità.