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«Tutto invecchia e tutto può rinnovarsi, come l’anno», replicò Efix, seguendo con gli occhi la figura smilza del Milese ancora vestito con la lunga sopravveste di pelli del suo paese.

La botteguccia era piccola ma piena zeppa come un uovo: sulle scansie rosseggiavano le pezze dello scarlatto e accanto brillava il verde delle bottiglie di menta; i sacchi di farina sporgevano le loro pance bianche contro le gobbe nere delle botti d’aringhe, e nella piccola vetrina le donne nude delle cartoline illustrate sorridevano ai vasi di confetti stantii ed ai rotoli di nastri scoloriti.

Mentre il Milese traeva da una scatola le lunghe berrette di panno nero, ed Efix ne misurava con la mano aperta la circonferenza, qualcuno apri la porticina che dava sul cortile; e nello sfondo inghirlandato di viti apparve, seduta su una lunga scranna, una donna imponente che filava placida come una regina antica.

«Ecco mia suocera: domanda a lei se queste berrette non costano a me nove «pezzas», disse il Milese, mentre Efix se ne misurava una tirandone giù sulla fronte il cerchio e ripiegandone la punta alla sommità della testa. «Hai scelto la migliore; non sei semplice come dicono! Non vedi che è una berretta da sposo?»

«È stretta.»

«Perché è nuova, figlio di Dio, prendila. Nove «pezzas» (2): è come che sia buttata nella strada.»

Efix se la tolse e la lisciò, pensieroso; finalmente mise sul banco la moneta dell’usuraia.

Don Predu sporgeva il viso dalla porta, e il fatto che Efix comprava una berretta così di lusso richiamò anche l’attenzione della suocera del Milese. Ella chiamò il servo con un cenno del capo, e gli domandò con solennità come stavan le sue padrone. Dopo tutto erano donne nobili e meritavano il rispetto delle persone per bene: solo i giramondo arricchiti, come il Milese suo genero, potevano mancar loro di rispetto.

«Salutale tanto e di’ a donna Ruth che presto andrò a farle una visita. Siamo sempre state buone amiche, con donna Ruth, sebbene io non sia nobile.»

«Voi avete la nobiltà nell’anima», rispose galantemente Efix, ma ella roteò lieve il fuso come per dire «lasciamo andare!».

«Anche mio fratello il Rettore ha molta stima per le tue padrone. Egli mi domanda sempre: "quando si va ancora assieme con le dame alla festa del Rimedio?".»

«Sì», ella proseguì con accento di nostalgia, «da giovani si andava tutti assieme alla festa: ci si divertiva con niente. Adesso la gente pare abbia vergogna a ridere.»

Efix piegava accuratamente la sua berretta.

«Dio volendo quest’anno le mie padrone andranno alla festa… per pregare, non per divertirsi…»

«Questo mi fa piacere. E dimmi una cosa, se è lecito: è vero che viene il figlio di Lia? Lo dicevano stamattina lì in bottega.»

Siccome il Milese s’era avvicinato alla porta e rideva per qualche cosa che don Predu gli diceva sottovoce, Efix esclamò con dignità:

«È vero! Io sto qui appunto in paese perché devo comprare un cavallo per lui».

«Un cavallo di canna?», domandò allora don Predu, ridendo goffamente. «Ah, ecco perché ti ho visto uscire dalla tana di Kallina.»

«A lei che importa? A lei non abbiamo domandato mai niente!»

«Sfido, babbeo! Non vi darei mai niente! Un buon consiglio però, sì! Lasciate quel ragazzo dov’è!»

Ma Efix era uscito dalla bottega a testa alta, con la berretta sotto il braccio, e si allontanava senza rispondere.

Capitolo terzo

Invano però nei giorni seguenti e per intere settimane le dame Pintor aspettarono il nipote.

Donna Ester fece il pane apposta, un pane bianco e sottile come ostia, quale si fa solo per le feste, e di nascosto dalle sorelle comprò anche un cestino di biscotti. Dopo tutto era un ospite, che arrivava, e l’ospitalità è sacra. Donna Ruth a sua volta sognava ogni notte l’arrivo del nipote, e ogni giorno verso le tre, ora dell’arrivo della diligenza, spiava dal portone. Ma l’ora passava e tutto restava immoto intorno.

Ai primi di maggio donna Noemi rimase sola in casa perché le sorelle andarono alla festa di Nostra Signora del Rimedio, come usavano tutti gli anni, da tempo immemorabile, per penitenza, – dicevano – ma anche un poco per divertimento.

Noemi non amava né l’una né l’altro, eppure, mentre sedeva all’ombra calda della casa, in quel lungo pomeriggio luminoso, seguiva col pensiero nostalgico il viaggio delle sorelle. Rivedeva la chiesetta grigia e rotonda simile a un gran nido capovolto in mezzo all’erba del vasto cortile, la cinta di capanne in muratura entro cui si pigiava tutto un popolo variopinto e pittoresco come una tribù di zingari, il rozzo belvedere a colonne, sopra la capanna destinata al prete, e lo sfondo azzurro, gli alberi mormoranti, il mare che luccicava laggiù fra le dune argentee. Pensando a queste dolci cose, Noemi sentiva voglia di piangere, ma si morsicava le labbra, vergognosa davanti a se stessa della sua debolezza.

Tutti gli anni la primavera le dava questo senso d’inquietudine: i sogni della vita rifiorivano in lei, come le rose fra le pietre dell’antico cimitero; ma ella capiva che era un periodo di crisi, un po’ di debolezza destinata a cessare coi primi calori estivi, e lasciava che la sua fantasia viaggiasse, spinta dalla stessa calma sonnolenta che stagnava attorno, sul cortile rosso di papaveri, sul Monte ombreggiato dal passaggio di qualche nuvola, sull’intero villaggio metà dei cui abitanti era alla festa.

Eccola dunque col pensiero laggiù.

Le par d’essere ancora fanciulla, arrampicata sul belvedere del prete, in una sera di maggio. Una grande luna di rame sorge dal mare, e tutto il mondo pare d’oro e di perla. La fisarmonica riempie coi suoi gridi lamentosi il cortile illuminato da un fuoco d’alaterni il cui chiarore rossastro fa spiccare sul grigio del muro la figura svelta e bruna del suonatore, i visi violacei delle donne e dei ragazzi che ballano il ballo sardo. Le ombre si muovono fantastiche sull’erba calpestata e sui muri della chiesa; brillano i bottoni d’oro, i galloni argentei dei costumi, i tasti della fisarmonica: il resto si perde nella penombra perlacea della notte lunare. Noemi ricordava di non aver mai preso parte diretta alla festa, mentre le sorelle maggiori ridevano e si divertivano, e Lia accovacciata come una lepre in un angolo erboso del cortile forse fin da quel tempo meditava la fuga.

La festa durava nove giorni di cui gli ultimi tre diventavano un ballo tondo continuo accompagnato da suoni e canti: Noemi stava sempre sul belvedere, tra gli avanzi del banchetto; intorno a lei scintillavano le bottiglie vuote, i piatti rotti, qualche mela d’un verde ghiacciato, un vassoio e un cucchiaino dimenticati; anche le stelle oscillavano sopra il cortile come scosse dal ritmo della danza. No, ella non ballava, non rideva, ma le bastava veder la gente a divertirsi perché sperava di poter anche lei prender parte alla festa della vita.

Ma gli anni eran passati e la festa della vita s’era svolta lontana dal paesetto, e per poterne prender parte sua sorella Lia era fuggita da casa…

Lei, Noemi, era rimasta sul balcone cadente della vecchia dimora come un tempo sul belvedere del prete.

Verso il tramonto qualcuno batté al portone ch’ella teneva sempre chiuso.

Era la vecchia Pottoi che veniva per domandarle se occorrevano i suoi servizi; benché Noemi non la invitasse a restare sedette per terra, con le spalle al muro, sciogliendosi il fazzoletto sul collo ingemmato, e cominciò a parlare con nostalgia della festa.

«Tutti son laggiù; anche i miei nipotini, Nostra Signora li aiuti. Ah, tutti son laggiù e han fresco, perché vedono il mare…»

«E perché non siete andata anche voi?»

«E la casa, missignoria? Per quanto povera, una casa non deve esser mai abbandonata del tutto: altrimenti ci si installa il folletto. I vecchi rimangono, i giovani vanno!»

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(2) Venticinque centesimi.