«Bisogna chiamare zia Pottoi, bisogna mandar da Efix… Come farò, sola? Ah, esse lo sapevano che doveva arrivare, e mi han lasciata sola…».
L’abbraccio di quell’uomo sconosciuto, arrivato non si sa da dove, dalle vie del mondo, le destava una vaga paura; ma ella sapeva bene i doveri dell’ospitalità e non poteva trascurarli.
«Entra. Vuoi lavarti? Porteremo poi su la valigia: chiamerò una donna che ci fa i servizi… Adesso son sola in casa… e non ti aspettavo…»
Cercava di nascondere la loro miseria; ma pareva ch’egli conoscesse anche questa, perché senza attender d’esser servito, dopo aver portato la valigia nella camera che zia Ester aveva già preparato per lui – l’antica camera per gli ospiti, in fondo al balcone – ridiscese disinvolto e andò a lavarsi al pozzo come il servo.
Noemi lo seguiva con l’asciugamano sul braccio.
«Sì, da Terranova, son venuto. Che strada! Si vola! Sì, devo esser passato davanti alla chiesa, ma non mi sono accorto della festa. Sì, il paese sembra deserto: è molto decaduto, sì…»
Rispondeva sì a tutte le domande di Noemi, ma pareva molto distratto.
«Perché non ho scritto? Dopo la lettera di zia Ester stavo incerto. Poi sono stato anche malato e… non sapevo… A dirvi la verità mi son deciso avantieri; c’era un amico che partiva. Allora, ieri, visto che il mare era calmo, sono partito…»
Asciugandosi, si dirigeva verso la cucina. Noemi lo seguiva.
«Ester gli ha scritto! E lui è partito, così, come alla festa!»
Egli sedette sull’antica panca, di faccia al Monte che gettava la sua ombra violetta nella cucina, accavalcò le lunghe gambe, incrociò sul petto le lunghe braccia palpandosele con le mani bianche. Noemi osservò che le calze di lui erano verdi, un colore strano davvero per calze da uomo, e accese il fuoco ripetendo fra se:
«Ah, Ester gli ha scritto di nascosto? Che se lo curi lei, adesso!».
E provava un vago timore a voltarsi, a guardare quella figura d’uomo un po’ tutta strana, verde e gialla, immobile sulla panca dalla quale pareva non dovesse alzarsi più.
Ma egli ricominciò a parlare del viaggio, della strada solitaria, e domandò quanto s’impiegava per arrivare a Nuoro. Voleva recarsi a Nuoro: c’era lassù l’amministratore di un molino a vapore, amico di suo padre, che gli aveva promesso un posto.
Noemi si sollevò sorridente.
«Quanto ci vuole? Non so dirtelo, quanto ci vuole in bicicletta. Poche ore. Io sono stata a Nuoro molti anni fa, a cavallo. La strada è bella, e la città è bella, sì; l’aria è buona, la gente è buona. Là non ci sono febbri, come qui, e tutti possono lavorare e guadagnare. Tutti i forestieri son diventati ricchi, lassù, mentre, qui, pare d’essere in luogo di morti…»
«Sì, sì, è vero!»
Ella andò a prender le uova per fare una frittata.
«Vedi, qui non c’è neanche carne, tutti i giorni; di vino non se ne trova più… E questo amministratore del molino, come si chiama? Tu lo conosci?»
No, egli non lo conosceva, ma era certo che andando a Nuoro avrebbe ottenuto il posto.
Noemi sorrideva con rancore e con ironia, curva a punger la frittata: si fa presto a dire che si trova un posto! c’è tanta gente in cerca di posti!
«Ma tu hai lasciato quello che avevi?», domandò in fretta senza sollevar gli occhi.
Giacinto non rispose subito; pareva molto preoccupato per l’esito della frittata che ella rivoltava cautamente.
Alcune gocce di olio caddero sulle brace, inondando la cucina di fumo grasso; poi la padella riprese a friggere tranquilla e Giacinto disse:
«Era una cosa tanto meschina! E neppur sicura… Con tanta responsabilità!…».
Non disse altro, e Noemi non domandò altro. La speranza ch’egli se ne andasse presto a Nuoro la rendeva buona e paziente. Apparecchiò la tavola nell’attigua camera da pranzo abbandonata e umida come una cantina, e cominciò a servirlo scusandosi di non potergli offrire altro.
«In questo paese bisogna contentarsi…»
Giacinto schiacciava le noci con le sue forti mani, tendendo l’orecchio al tintinnio delle greggi che passavano dietro la casa. Era quasi notte; il Monte era diventato scuro e là dentro in quell’umida stanza dalle pareti macchiate di verde pareva d’essere in una grotta, lontani dal mondo. Le descrizioni che Noemi faceva della festa lo suggestionavano. Egli la guardava, un po’ stanco e assonnato, e quella figura nera sullo sfondo ancora lucido del finestrino, coi capelli folti e le mani piccole appoggiate al tavolo melanconico, doveva ricordargli i racconti nostalgici di sua madre, perché cominciò a domandar notizie di persone del paese che erano morte o di cui Noemi non s’interessava affatto.
«Zio Pietro? Com’è questo zio Pietro? È il più ricco, vero? Quanto può possedere?»
«È ricco, sì, certo: ma è una testa! Superbo come un giudeo.»
«Egli dà denari a usura?»
Noemi arrossì, perché sebbene le relazioni col cugino fossero tese, le sembrava un’ingiuria personale dare dell’usuraio a un nobile Pintor.
«Chi te lo ha detto, questo? Ah, non dirlo neanche per scherzo…»
«Il Rettore e la sorella, però, sono usurai davvero. Sono ricchi? Quanto posseggono?»
«Neanche loro, che dici? Forse forse il Milese, ma un’usura giusta: il trenta per cento, non di più…»
«È questa un’usura giusta? Ah, com’è allora l’altra?»
Allora Noemi si curvò sul tavolo e mormorò:
«Anche il mille per cento… E anche di più, qualche volta».
Ma invece di meravigliarsi, Giacinto si versò da bere e disse pensieroso:
«Sì, anche da noi l’usura e diventata enorme… Il nipote del cardinale Rampolla si è rovinato così!…».
Dopo cena volle uscire. Domandò dov’era la posta, e Noemi lo condusse fino alla strada, indicandogli la piazzetta in fondo verso la casa del Milese.
Appena egli si fu allontanato, ella si guardò attorno e scese fino alla casupola della vecchia Pottoi. La porticina era aperta, ma dentro tutto era nero, e solo ai richiami timidi di Noemi la vecchia s’avanzò dalla profondità scura della stamberga con un tizzone acceso in mano. Il barlume rossastro faceva scintillare i suoi gioielli.
«Zia Pottoi, sono io: bisogna che mandiate subito qualcuno a chiamare Efix. È arrivato Giacinto. E poi voi verrete a dormire con me. Ho paura a star sola… con un forestiero…»
«Andrò a chiamare qualcuno per mandarlo al podere. Ma io dalla vossignoria non vengo, no: la casa non la lascio in balìa del folletto…»
E perché durante la sua assenza il folletto non entrasse, lasciò il tizzone acceso sulla soglia della porta.
Capitolo quarto
Un gran fuoco di lentischi, come lo aveva veduto Noemi fanciulla, ardeva nel cortile di Nostra Signora del Rimedio, illuminando i muri nerastri del Santuario e le capanne attorno.
Un ragazzo suonava la fisarmonica, ma la gente, ch’era appena uscita dalla novena e preparava la cena o già mangiava entro le capanne, non si decideva a cominciare il ballo.
Era presto ancora: sul cielo lucido del crepuscolo spuntavano le prime stelle, e dietro la torretta del belvedere l’occidente rosseggiava spegnendosi a poco a poco.
Una gran pace regnava su quel villaggio improvvisato, e le note della fisarmonica e le voci e le risate entro le capanne parevano lontane.
Qua e là davanti ai piccoli fuochi accesi lungo i muri si curvava la figura nera di qualche donna intenta a cucinare.
Gli uomini, venuti alla vigilia per portare le masserizie, eran già ripartiti coi loro carri e i loro cavalli: rimanevano le donne, i vecchi, i bambini e qualche adolescente, e tutti, sebbene convinti d’esser là per far penitenza, cercavano di divertirsi nel miglior modo possibile.
Le dame Pintor avevano a loro disposizione due capanne fra le più antiche (tutti gli anni ne venivan fabbricate di nuove) dette appunto «sas muristenes de sas damas», perché divenute quasi di loro proprietà in seguito a regali e donazioni fatte alla chiesa dalle loro ave fin dal tempo in cui gli arcivescovi di Pisa nelle loro visite pastorali alle diocesi sarde sbarcavano nel porto più vicino e celebravano messe nel Santuario.