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Il sentiero scendeva lungo il fianco di una collina, sotto i tronchi alti e ondeggianti; era una strada tortuosa, comoda e in lieve pendenza, ma lunga. La pioggia, ormai furibonda, mi frustava le guance, mi incollava i capelli alla testa e cominciava a insinuarsi nel colletto, come un gelido millepiedi che mi strisciava sulla pelle. Gridai contro le colline incuranti, lo stolido tempo e la malasorte. Mi fermai sul ciglio del sentiero, guardai in basso e mi decisi a tagliare le curve e a precipitarmi giù per il pendio.

Scivolai due volte su uno strato di fango e foglie in decomposizione, e dovetti fare presa sul terreno fradicio e scivoloso per non rotolare ancora più in basso. Le mie dita sguazzavano nel fango freddo e nell’humus marcio dell’autunno precedente, gelido, bruno, simile a quello di una porcilaia; mi pulii alla meglio le mani sull’erba, lasciando chiazze nerastre. Il prezioso soprabito era sempre più pesante per via della pioggia, la sua superficie era scurita dalle gocce incessanti, l’eleganza di sartoria era sgualcita dalla pioggia battente che, era probabile, l’aveva rovinato per sempre.

In fondo all’itinerario che avevo scelto c’era un ripido argine e un fosso profondo che dovevo attraversare prima di raggiungere la strada; sbattei gli occhi per liberarli dall’acqua che mi scorreva sul viso, e guardai a destra e a sinistra, in cerca di un passaggio più comodo, ma argine e fosso proseguivano in entrambe le direzioni e non c’erano scorciatoie. Decisi di spiccare un salto, ma anche se presi una breve rincorsa, l’argine cedette sotto di me e mi fece rotolare a braccia aperte giù per la riva fangosa. Urtai contro grosse radici sporgenti e fui sbalzato dall’altra parte, atterrando sulla schiena contro l’altro argine. Il colpo mi tolse il respiro, picchiai la testa contro una pietra, e poi, disorientato, col fiato mozzo e le vertigini, non potei fare a meno di rimbalzare, cadendo in avanti, nelle scure e luride profondità del fosso.

Mi ritrovai sdraiato con le mani strette alla terra sulle due rive e la faccia piantata nel fango rancido. Liberai la testa della stretta soffocante della terra e cercai di espellere il fango dalla bocca e dal naso, scosso da conati di vomito mentre sputavo e soffiavo fuori il suo muco denso e freddo. Cercai di respirare, inghiottendo aria fra gli sputi e tentando di costringere i polmoni a funzionare, mentre un orribile vuoto che non riuscivo a riempire mi si insediava nel petto, prendendosi gioco di me.

Mi girai, sempre ansimando, e pensai con terrore che avrei potuto morire lì, soffocato in mezzo ai gelidi escrementi di quei boschi; forse mi ero rotto qualcosa; forse quella tremenda impossibilità di respirare era solo l’inizio di una paralisi progressiva.

La pioggia continuava a sferzarmi. Mi ripulì un po’ la faccia, ma la nuca e la schiena erano sprofondate nel fango e avevo le scarpe piene di un’acqua ghiacciata e lurida. Continuavo a rantolare in cerca d’aria. Presi a vedere strane luci sopra di me, fra gli alberi, mentre nell’insieme mi si oscurava la vista, e l’aria mi gridava addosso un’oscena ninna nanna, presaga di morte.

Riuscii a mettermi seduto, mi inginocchiai, mi misi carponi per tossire ancora una volta, e finalmente riuscii a spingere fino ai polmoni un po’ d’aria carica di saliva. Fui assalito da altri conati di vomito, sputai e fissai la nera colla di terra e foglie decomposte che mi scorreva attorno alle mani. Il liquame prese a salire e a ricoprirle, finché non si vedevano che i polsi pallidi, che spiccavano sul fluido nero e fangoso, mentre sotto la superficie schiumosa le mie mani impastavano il fango tiepido e cedevole, che all’improvviso mi sembrò carne.

Tossii un’altra volta, starnutii, e osservai i lunghi filamenti glutinosi che mi pendevano dalla bocca e dal naso e mi tenevano legato alla terra, finché non li spezzai con una mano.

Presi a respirare più facilmente e poi, ormai sicuro che non sarei morto e che non avevo nessuna grave ferita, mi guardai in giro. Fissai le gocce battenti che schizzavano tutt’intorno, la curva lucida e gonfia della riva del fosso, segnata da un bordo fradicio di erba pesante e piegata, gli alberi scuri che torreggiavano imperiosi sopra di me, i trasparenti veli di pioggia che spazzavano la foresta, i rivoli setosi dell’acqua che scorreva su radici lucenti simili a membra, sporgenti dalla riva dell’argine, e che stillava sulla strada come un aspro, gelido sudore della terra.

Per qualche motivo cominciai a ridere. Questo mi fece tossire di nuovo, ma non m’importava; ridevo e piangevo e scuotevo la testa e poi mi lasciai cadere in avanti nel fango nerastro, arrendendomi a esso, muovendomi come per nuotare nel suo abbraccio glutinoso mentre cercavo di impadronirmene, di stringerlo fra le dita, di riempirmene la bocca, di spalmarmelo sulla faccia, di berlo. Presi a spogliarmi dei vestiti fradici, dimenandomi goffamente, gettandoli lontano, per metà esasperato, per metà incitato dalla loro appiccicosa resistenza, finché non fui nudo nel pantano gelido, e mi ci rotolai come un cane nello sterco, intirizzito, felice e mugolante, e mi spalmai quella melma su tutto il corpo, così eccitato dalla sua carezza vischiosa che il freddo e l’umidità vennero sconfitti dal calore che sorgeva dentro di me, e poco dopo mi inginocchiai sul fondo del fosso, ricoperto di strisce di fango e — per la prima volta in vita mia — mi masturbai.

Non ci fu emissione, il suolo restò intatto e in quel momento non mi unii fino in fondo alla terra, ma dopo quell’orgasmo secco e feroce, e con quella tiepida incandescenza che mi avvolgeva le cosce e risuonava ancora dentro di me, mi rivestii, tremando, e maledissi i vestiti umidi, granulosi, così poco cooperativi. Adesso le mie maledizioni erano più fiorite; usavo il linguaggio di alcuni giardinieri che avevo ascoltato per caso mesi prima, come se i loro innesti solo allora avessero attecchito nella mia anima, e sbocciassero in una bocca ormai davvero insozzata.

La pioggia era quasi cessata quando arrivai al castello; accettai le attenzioni dei domestici, i gentili strilli e l’indaffarata simpatia di nostra madre e mi immersi con piacere nel bagno fumante, nei morbidi asciugamani, nella nuvola di talco profumato e di acqua di colonia, poi mi lasciai vestire con abiti puliti e inamidati, ma ormai indossavo qualcosa d’altro, qualcosa che adesso faceva parte di me, come l’acqua terrosa che avevo inghiottito nel fosso e che si stava lentamente facendo strada nel mio corpo, diventando, almeno in parte, parte di me.

Fango, melma, lordura, suolo: la terra in sé, in tutta la sua viscida, scatologica rudezza, poteva essere una fonte di piacere. C’era un’estasi nel lasciarsi andare, e un valore nella continenza al di là della sua propria ricompensa. Tenere le distanze, restare incontaminato, mantenere un certo distacco dal terreno sconsacrato della vita poteva rendere l’abbraccio ultimo, la finale presa di possesso di quella qualità fondamentale, uno dei piaceri più dolci e preziosi, addirittura una delle più acute beatitudini.