La notte ho sognato, e nel naufragio ambrato dei tuoi occhi, come un vetro infranto che contiene il tuo spirito gelido, nuotavano lente immagini confuse di un fato più luminoso. Era, alla fine, la solita cosa, l’usuale specialità della casa della nostra mente, una spiacevole lotta combattuta fra le pieghe imbottite del cervello; desiderio espresso con l’intento di impressionare. Eppure, come un libro antico da fuoco o umidità contorto, ai bordi di questa fantasia si acquattava il mio pensiero sommerso (o il sogno è il fuoco, che consuma, la mente è il centro, il frammento intatto, la prosa ridotta, promossa a fortuita poesia).
E io ti ho scritta, mia cara; ho lasciato il mio segno, l’inchiostro è colato dalla mia penna, sei rimasta macchiata, e non solo la mia lingua ha sferzato, cadendo. Tagliata, ferita, legata, presa, lasciata, vuoi ciò che non vuoi e lo ottieni; un destino più benevolo, mi fa comodo pensare, che volere davvero ciò che fai, e non averlo.
Ma per essere all’occasione meno che tenero, ti ho resa più rara, e ciò che abbiamo in comune non viene spesso condiviso. Ho osservato domestici, contadini, artigiani, segretari diventare quella timida bestia, ho notato la loro insulsa uguaglianza con il nostro stato, e di quell’intima ordinarietà, di quella normalità compiaciuta e inconsapevole, sono rimasto perversamente disgustato.
Ho stabilito, per quanto a freddo, che perché qualcosa in questa vita, questo pensiero fuggevole, questo filo di senso in tutto il caos universale che ci circonda abbiano valore, siano in qualche modo degni, io, noi, dobbiamo sottrarci a tali obiettivi terreni, distaccarci sia nella messa in scena di quell’atto abituale sia nei vestiti, nell’abitazione, nel parlare e nelle maniere accessorie. Pertanto ho degradato entrambi allo scopo di distaccarci dal volgo fin dove riesce a spingersi la mia immaginazione, sperando — in virtù di una simile imprudenza — di rendere entrambi prudentemente separati.
E tu, mia meschina adorata, non mi hai mai biasimato. Nonostante tutto quell’estatico dolore e la necessaria malvagità; con tutto quello che è passato dalle tue labbra, non una parola di abiura ti è affiorata alla bocca.
Oh, tu eri sempre perduta nelle profondità di qualche calmo giudizio, sempre rapita, sempre ammantata del semplice ma entusiasmante impegno di essere te stessa; ho visto la scelta dell’abito da mattino che ti occupava quasi fino al pranzo, sono stato testimone della ricerca dell’unico perfetto profumo, ti ho osservata mentre dedicavi un pomeriggio o anche più all’operazione delicata e impegnativa di spalmarti un unguento sulla pelle, strofinartela con lentezza e annusarti con cura, ho visto che un semplice sonetto ti assorbiva per una sera di tormentati sospiri, ti ho scoperta intenta e seria, l’immagine stessa della sincerità assoluta, a soppesare per tutta una sera ogni parola di qualche insopportabile pedante, e sapevo che dormendo, l’avrei giurato, ti eccitavi fino all’orgasmo e poi ripiombavi nel più profondo dei sonni senza nemmeno svegliarti davvero.
Eppure credo ancora che tu la pensi come me, nonostante le differenze.
Noi soli siamo completi, noi soli siamo ordinati, mentre gli altri — distribuiti, ammassati come granelli di sabbia, questi profughi — non sono che luce casuale, un sibilo bianco, una pagina vuota, uno schermo sfarfallante, il rinnovato decadimento da uno stato di grazia al quale noi possiamo almeno aspirare con tutte le nostre forze.
Sbatte, azzanna — credo di sentirla — nell’aria sopra la mia mente che mulina — la pelle della vecchia tigre artica, come se, agitando una zampa e battendo l’altra, salutasse la notte.
SEI
Giunge splendente il mattino; l’aurora dalle dita insanguinate incendia mari d’aria con la sua luce zelante e costringe la terra a un’altra falsa partenza. I miei occhi si schiudono come fiordalisi, pungono, incrostati della loro impura rugiada, e poi si imbevono di quella luce.
Mi alzo, mi trascino fino a inginocchiarmi a una delle strette finestre della torre, mi strofino il sonno dagli occhi e guardo fuori per essere testimone dell’aurora.
Brandita come una spada di fuoco, la luce del sole colpisce questa grigia pianura e ne fa un calderone dove i vapori si moltiplicano e si radunano per scomparire poi nell’aria limpida, dissolti nella distesa oceanica del cielo.
Osservo tutto ciò mentre mi libero delle mie scorie: con una lenta parabola, il mio personale contributo al fossato zampilla dorato nella foschia luminosa del nuovo giorno e tocca schiumando le scure acque più sotto, e ogni goccia colpita dal sole, nettamente delineata, è la maglia lucente di una catena d’oro, è una curva matematica, è una metafora della luce.
Torno alleggerito al mio letto di fortuna accanto al caminetto freddo, pieno di pagine bruciate; vorrei semplicemente riposare, ma mi riaddormento di nuovo, e mi risveglio solo al rumore di una chiave che gira e a una serie di colpi alla porta.
«Signore?»
Mi siedo sul letto, disorientato dalla vacuità del sonno, ripreso senza bisogno e poi bruscamente interrotto.
«Buon giorno, signore. Le ho portato un po’ di colazione.» Il vecchio Arthur, senza fiato dopo la faticosa ascesa sulla scala a chiocciola, apre col corpo la porta e deposita un vassoio su una cassa. Mi guarda con un’aria di scusa. «Posso sedermi, signore?»
«Certo, Arthur.»
Crolla riconoscente su una sedia carica di giornali e provoca una nube di polvere che si solleva pigra nelle lame di luce che penetrano dalle finestre. Il suo petto si alza e si abbassa, lui allarga le gambe ed estrae dalla tasca un fazzoletto per asciugarsi la fronte.
«Chiedo scusa, signore. Non sono più giovane come una volta.»
Ci sono circostanze in cui, semplicemente, non c’è nulla da dire; se qualcuno della mia condizione avesse pronunciato una frase del genere, avrei scelto una replica con la ghiotta e giudiziosa esultanza di un cacciatore alla posta che ha appena identificato un perfetto e ignaro esemplare della sua preda, e deve decidere quale fucile usare. Con un vecchio e apprezzato domestico, un diletto del genere sarebbe fuori luogo, avvilente per me e per lui. Ne ho conosciuti alcuni, di quelli che appartengono per nascita al nostro rango ma non lo meritano, che sfruttano simili occasioni per umiliare coloro che li servono, e a quanto pare ricavano immense soddisfazioni da quell’ignobile commedia, ma il loro spirito, ritengo, è figlio della debolezza. Dovremmo incrociare la spada solo con i nostri pari, altrimenti la contesa non ci direbbe nulla di più di ciò che è ovvio in misura perfino imbarazzante; e senza volerlo confermano questa verità coloro che, inclini come sono a colpire chi non ha la possibilità di rispondere in maniera diretta, si espongono senza difesa agli attacchi di quanti quella possibilità ce l’hanno.
Inoltre, so che i nostri inferiori hanno il loro orgoglio; sono la nostra immagine, in circostanze differenti, e i membri del nostro ceto assecondano fin troppo l’uno nell’altro il sentimento dell’amor proprio. Tutti noi siamo il nostro sistema legale, quando ne sentiamo il bisogno e ne vediamo l’opportunità; arrestiamo, giudichiamo, emaniamo la sentenza e, quando possiamo, facciamo rispettare tutto ciò che, secondo la nostra personale filosofia, consideriamo legittimo. Il sarcasmo nei confronti di un cameriere verrà probabilmente seguito — oltre la porta a vento della cucina — dallo stesso favore ricambiato, non metaforicamente, sotto forma di una salsa aggiunta di nascosto al piatto seguente, e di certo molti servitori disprezzati hanno nutrito a lungo un rancore, finché non sono riusciti a restituire l’offesa grazie a un pettegolezzo diffuso al momento opportuno o — agendo in base all’intima conoscenza di ciò che è più prezioso al loro tormentatore — con il danneggiamento, la ferita, la rovina o la perdita di quel tesoro. C’è in queste relazioni ineguali un equilibrio calcolato con cura, che chi sta sopra può ignorare molto più facilmente di chi sta sotto; ma lo fa a proprio rischio e pericolo.