I cani erano addestrati a spaventare i falchi, poi con la preda ancora calda tornavano correndo al castello, attraversavano il ponte di pietra e il cortile interno, salivano per la scala a chiocciola, sbucavano sulla merlatura, lasciando sui gradini una traccia di sangue e piume.
Con questi cacciatori vicari pensavo di partecipare alla lotta, impietosamente elegante, fra morte e vita, evoluzione e selezione, predatore e preda. Credevo di contrastare, per mezzo loro, il duro assedio dell’aria e la lenta corrosione del tempo e la faticosa avanzata dell’età, andando incontro a tutto ciò non col metodo della nuvola — cedendo, rinunciando — ma fendendo l’aria: una fissità di visione e di presa che mi avrebbe consentito — per delega ma non per questo sminuito — di resistere, connesso alla natura e da essa definito.
I cani sono morti l’anno scorso; una malattia quando non c’erano più veterinari in giro. Generazioni di devozione e di meticoloso allevamento sono sparite con loro.
Ho liberato quei maledetti uccelli quando abbiamo deciso di lasciare il castello, perché fuggissero quel destino che invece ha colto noi, e dove volteggino adesso, cosa vedano e catturino, non lo posso sapere.
Il vento mi avvolge, il vento mi viene incontro dalla pianura sferzata. Sottili schegge di sole premono sotto le nuvole e, riflettendosi, sembra che si impadroniscano delle cose invece di illuminarle, confondono il paesaggio come una mimetizzazione, per via dello stridente contrasto, chiaro su scuro, spezzano le poche forme sopravvissute e i segni della civiltà umana ancora evidenti — in una luce migliore (come quella che fornisce la memoria) — all’interno del caos assoluto che domina il paesaggio a perdita d’occhio.
Nei campi, sulle colline sporgenti e nelle macchie d’alberi, gli stagnanti tratti di fiume brillano di una grazia gialla e contaminata: sono vivi allo sguardo solo da questa prospettiva. Gli alberi, colorati fino a poco fa per il freddo cambio di stagione, adesso sono sagome nere e spoglie, rami nudi pronti ad accogliere il peso della neve e la forza delle tempeste invernali. Più in alto, le foreste scintillano al passaggio delle nubi che scorrono sopra di loro, restando impigliate nelle cime degli alberi con la loro lenta grazia.
Ascolto i colpi dell’artiglieria, ma il vento, più freddo, ha cambiato direzione, e trattiene gli spari. Quel tuono lontano e artificiale è diventato quasi un compagno rassicurante nel corso delle ultime settimane. È come se fossimo ricaduti in un sistema di credenze più primitivo, come se nell’agitazione delle nostre storie di sopravvissuti avessimo risvegliato un antico dio: un dio delle tempeste, che percorre la terra con martelli al posto dei piedi e una testa a forma d’incudine, una creatura amorfa, adirata e onnipresente, mentre il tuono, simile al rumore di teschi frantumati, si schianta sulle nostre terre oscurate e l’aria trasporta l’alito del lampo sulla terra.
Quella divinità risvegliata sta marciando su di noi, adesso, verso le porte del castello. Il rumore è quello dei borborigmi della terra, di un vecchio pugno che si abbatte su assi vuote in un paradiso abbandonato sopra di noi, e anche se il vento ha formato un fronte contro quell’esplosione, e il movimento dell’aria ha disperso quel rumore, sappiamo che è sempre lì; ciò che il vento nasconde, il vento insiste a rivelare, fornendoci il ricordo di quel suono.
L’aria e le rocce, e anche i mari, dimenticano più rapidamente di noi.
Un grido sulle montagne si spegne in pochi secondi, la terra stessa risuona come una campana quando i suoi continenti che scivolano e si scontrano hanno uno spasmo, ma anche quel segnale svanisce nel giro di qualche giorno, e nonostante le gigantesche onde di una tempesta o di un maremoto possano girare attorno al globo per settimane e mesi, quella modesta massa di materia, quel fiore attaccato a uno stelo che chiamiamo cervello supera di gran lunga questi ricordi brutalmente meccanici, e ciò che echeggia in un cranio umano può risuonare di gioia, paura e rimpianto per un’intera vita, e decadere lentamente solo dopo qualche decennio.
Stringo gli occhi per vedere attraverso la barriera della luce: in lontananza credo di distinguere alcune forme in movimento, sagome rese più magre, più allungate dalla riverberante luminosità dell’acqua. Non ho più binocolo né cannocchiali — sono stati tutti requisiti — ma sarebbe peggio che inutile fissare questa luce, dolorosa anche a occhio nudo. Sono profughi quelli che vedo, impliciti nel luccichio delle ombre contro la luce? Potrebbero essere anche soldati, immagino; potresti essere anche tu, mia cara, che guidi la nostra luogotenente e i suoi uomini in un’involontaria impresa disperata. Ma credo di no. Fino a qualche mese fa, avrebbe potuto essere anche una mandria di buoi, ma ormai quasi tutte le bestie dei dintorni sono state abbattute e mangiate, e le poche che restano vengono sorvegliate con tutte le cure e non hanno più il permesso di vagabondare.
Profughi, allora; un’eco anticipata del fronte che si avvicina, l’immagine stessa del profondo avvallamento prima che si abbatta l’onda gigantesca, un sospiro trattenuto prima dell’urlo; un flusso di cellule morte in un’arteria, una ventata di foglie secche prima dell’arrivo della tempesta. Alberi spogli e spezzati sono allineati sul loro sentiero, con i monconi scheggiati, il pallido cuore dell’albero messo a nudo; tagliati, abbattuti per il fuoco degli accampamenti o dai colpi dell’artiglieria. Sono ancora lì, cresciuti ma spezzati, a imitazione di coloro che li hanno nervosamente mutilati.
La luce cambia, e i lampeggi corruschi si spengono. Il fiume, gli affluenti, i canali di scolo, le anse, gli stagni e i campi allagati si oscurano a mano a mano che le nuvole coprono la loro diretta fonte di luce. Adesso vedo fili sottili di fumo levarsi nella pianura, dove sorgevano villaggi, case, fattorie, abitazioni costruite e cresciute sulla terra, che la includevano con tutti i suoi distinti prodotti e che adesso si combinano con l’aria infruttuosa.
Cerco di vedere te, mia cara, la nostra luogotenente e i suoi uomini, ma tutto è perduto nella superficie spezzata della vista, tutto è sprofondato nella sua afflitta complessità, e la terra, solidificandosi, ha assorbito anche te.
E così cammino su queste pietre, percorro questo cammino sopraelevato, mi strofino le mani e osservo il vapore che mi esce dalla bocca come se fosse un avviso che si materializza davanti a me, e posso solo aspettare.
Ho freddo; sputo catarro verso il fossato, poi sorrido a quei cerchi che si dipartono nell’acqua. E lì sotto, come foglie sparse nel vento d’autunno — di nuovo come cellule eliminate, e come gli sfollati che si ammucchiano sulle nostre strade -, dopo aver seguito la corrente, dopo un lungo viaggio, sono arrivati i fringuelli, gli uccelli che abbiamo ucciso e che io avevo perduto, tutti morti e bagnati, sudici, freddi, che girano nell’anello d’acqua che circonda il castello. I nostri poveri pennuti morti, venuti finalmente a casa, per farsi arrostire.
SETTE
La notte avvolge il castello, e io torno a dormire. I miei sogni, carissima, prendono la stessa direzione dei miei ultimi pensieri coscienti, e si volgono a te, non ancora tornata. Simili fantasticherie sollecitano i vecchi ricordi lascivi della mia mente — evocati, tornati a galla dalle sue profondità ad opera dei crescenti piaceri che richiamano.