Ti cerco nei miei sogni, mentre barcollo in un paesaggio di desideri in cui le nuvole e i mucchi di neve diventano cuscini, una guancia accarezzata, un seno pallido e pesante. Mentre sprofondo in crepacci bordati di felci, mentre cedo alla palude che mi afferra e al suo profumo dolcemente amaro, vedo alberi che crescono, tumescenti, da contorte vene di radici; rocce levigate che si fendono in gole vertiginose; steli che pulsano di linfa e di vita; frutti lanuginosi, caduti e spaccati; crepe aperte nella terra, circondate da creste e corone di roccia; mi rendo conto che ogni tratto del paesaggio nasconde qualcosa che bramo. In adorazione prima e poi infuocato dal desiderio, mi scopro smarrito, come se fossi già stato infettato dalla tua natura.
Vorrei possedere questa terra; voglio prenderla, farla mia, ma non posso. L’acqua rimane acqua, niente di più, gli alberi torreggianti sono solo alberi, i frutti marciscono e le pietre, curve e levigate, sembrano promettere qualcosa, se solo potessero essere sollevate e spostate… Ma non verranno smosse.
L’unica cosa da fare è rivoltarsi in questo letto troppo grande; prima, in simili circostanze, sarei salito al piano di sopra in cerca di una cameriera compiacente con la quale trascorrere la notte, ma in questi giorni sono rimasti solo uomini alle nostre dipendenze; non c’è nulla che mi possa eccitare nel personale.
Alla deriva nella zattera del letto, mi abbandono ai sogni come una nave senza meta, guidata dalle onde lunghe o dai venti. Il tuo corpo è un lontano ricordo, come la vista nebbiosa di un’isola.
Poi, per uno strano capovolgimento, l’immagine crea la realtà. La nostra coraggiosa luogotenente è tornata, e ti ha mandato da me, a strisciare in silenzio nel mio letto e infilarti fra le lenzuola. Mi volto nel sonno e mi scopro perfettamente sveglio. Tu ti inginocchi, poi ti sdrai, sempre in silenzio. Ti stringo, mia cara. Fissi, ancora per metà vestita, lo scuro baldacchino sopra il letto. La luce — duplice, gettata dal fuoco che sta morendo nel camino e dalla luna che splende in una finestra — mette in mostra le tue guance arrossate. La tua pelle ha il profumo inebriante dell’aria aperta, e i tuoi capelli lunghi, neri, sciolti sono ingioiellati di fuscelli e foglie strappate.
I tuoi occhi hanno lo sguardo ferito e distratto della prima volta che ci siamo uniti. Guardandoli di lato, mi sembra di leggere in essi più di quanto vi abbia mai visto finora. Talvolta solo la vista laterale dice la verità; il nostro io, i volti che costruiamo per il mondo, per rendere più agevole il nostro passaggio, sono troppo abituati all’assalto frontale, e credo di vedere adesso in te più verità di quanta sia mai riuscito a cogliere fissandoti negli occhi. Avrei dovuto saperlo: cosa ci hanno insegnato i nostri gusti comuni se non che c’è più interesse quando le cose vengono osservate — e prese — di lato?
«Stai bene?» ti chiedo.
Resti in attesa, poi fai cenno di sì.
Gli uomini della luogotenente fanno rumore in cortile; i motori scoppiettano nel silenzio, cadono fucili, vibrano le luci dietro le tende tirate, echeggiano grida fra le mura del castello come voci delle pietre, e il castello, più di noi, sembra respirarci intorno.
Insisto. «Come è andata la giornata?»
Un’altra esitazione. «Abbastanza bene.»
«C’è qualcosa che vorresti dirmi?»
Pieghi appena la testa e mi guardi. «Cosa vuoi sapere?»
«Dove siete stati. Cosa è successo.»
«Sono stata con Lu» mi dici, con la testa voltata. Cerco di alzare una mano verso di te, ma sono rimasto impigliato fra le coperte aggrovigliate. Devo scivolare per tutto il letto, sbuffando, per liberarmi dal nodo. «Abbiamo attraversato le colline», continui. Adesso ho liberato la mano, ma non riesco ad accumulare abbastanza furia per colpirti. Potrei averti attribuito troppo spirito, in ogni caso. «Sono stata con Lu.» Forse non voleva dire nient’altro che quello che suggerisce l’interpretazione più innocente. In più, mi torna in mente, ho deciso di non essere geloso. Passo la mano ormai libera fra i miei capelli, poi fra i tuoi. Libero fuscelli che cadono sul cuscino.
«È successo qualcosa?» ti chiedo.
«Hanno trovato una capra, legata a un palo in una fattoria. In un’altra c’era una cisterna di gasolio che hanno cercato di svuotare ma non ci sono riusciti. Hanno bucato la cisterna per riempire alcuni bidoni ma hanno scoperto che conteneva solo acqua. C’era un posto che hanno detto doveva essere un orfanotrofio, a ovest. Io non ne avevo mai sentito parlare. I bambini erano stati tutti crocifissi.»
«Crocifissi?» chiedo corrugando la fronte.
«Ai pali del telegrafo. Sulla strada. Venti, anche di più, tutti lungo la strada. Ho perso il conto. Stavo piangendo.»
«Chi può aver fatto una cosa del genere?»
«Hanno detto che non lo sapevano.» Ti volti verso di me. «Subito dopo, hanno incontrato un uomo e gli hanno sparato. Tutti insieme, tutti nello stesso momento. Si stava allontanando e aveva delle scatolette che secondo loro aveva rubato all’orfanotrofio. Lui aveva detto di non aver visto i bambini, ma si capiva benissimo che mentiva.»
«E dopo?»
«Hanno trovato una cava sulle colline, con un deposito di dinamite, ma era vuoto.»
«E poi?»
«Hanno parlato con la gente che c’era sulla strada: profughi. Li hanno minacciati ma non hanno fatto loro del male; hanno detto una cosa che i soldati volevano sapere. Siamo saliti sulle colline, su un camion. Credo che siamo passati dalla casa degli Anders. Alcuni soldati sono andati avanti, sui cavalli che hanno preso in una fattoria vicina, e gli altri hanno continuato a piedi. Io sono rimasta alle jeep con due di loro. Sono tornati tutti dopo un po’ senza aver trovato niente. Ormai era buio. Troppo buio.»
«E dopo?»
«Siamo tornati indietro. Oh, abbiamo attraversato un ponte sul fiume, e c’erano barche con molta gente morta dentro; uno dei loro esploratori le aveva viste già ieri. Hanno tirato in secco le barche e le hanno nascoste, nel caso che ne abbiano bisogno in seguito. I morti li hanno lasciati galleggiare nel fiume. Questo mentre tornavamo a casa.»
«Una giornata piena di avvenimenti.»
Fai cenno di sì. Il fuoco getta ombre tremolanti sul soffitto stuccato e sulle scure pareti ricoperte di legno.
«Una giornata piena di avvenimenti», sussurri.
Non dico niente per un po’. «È andato tutto bene, per te?» ti chiedo alla fine. «La luogotenente ti ha trattata bene?»
Resti a lungo in silenzio. Le ombre del fuoco continuano la loro danza. Poi dici: «Con tutta la deferenza e la stima che sono arrivata ad aspettarmi da lei».
Non so cosa dire. Perciò non dico niente. Osservo invece la nostra situazione. Tu resti sdraiata, immobile, e io ti guardo, e rimaniamo così — in osservazione, immobili — come se quell’istante fosse senza tempo.
Ma non siamo mai così; i miei pensieri contraddicono la loro stessa genesi. Già il tempo non è senza tempo, figuriamoci noi. Siamo vittime volontarie della nostra rapidità e, mentre il comportamento più elegante sarebbe stato quello di voltarmi e ignorarti, non ho fatto così. Invece ho steso una mano, ho fatto uno sforzo, e per un istante ho deciso di non decidere più e poi, guidato nell’azione da un livello di pensiero più rozzo e più semplice, ho afferrato il bordo delle coperte e le ho stese sopra di te.
Ho sognato l’estate, nel mio nuovo sonno, ho sognato il periodo, molti anni fa, in cui la nostra relazione era nuova e fresca e ancora segreta, o così pensavamo, e tu e io facemmo un picnic, guidando i cavalli verso un lontano prato in mezzo alle colline boscose.
Queste energiche galoppate ti eccitavano sempre, e così proseguimmo, con te di fronte a me, con le gambe a cavalcioni, impalata, con la gonna che copriva la nostra unione, mentre quel vigoroso cavallo, rassegnato, girava in tondo nell’arena nascosta e illuminata dal sole, nella radura coperta di fiori e rumorosa di insetti, e la muscolosa e scattante vigoria dell’animale ci condusse alla fine, nonostante la nostra relativa immobilità (ipnotizzati, dimentichi, perduti in quell’istante prolungato di luce screziata e aria ronzante, dopo aver ceduto ogni controllo ai movimenti pulsanti dell’animale), alla dolce reciprocità della beatitudine.