Poi, oltre il fumo e le fiamme e il tetto deformato del furgone, dove un portapacchi spezzato ha disperso borse, fusti e scatoloni sull’erba giallastra e tra gli arbusti striminziti, si muove qualcosa.
È stato allora che abbiamo visto per la prima volta la luogotenente, che si levava dietro le fiamme insanguinate del furgone; la sua figura era deformata dal calore, come se ci apparisse attraverso un velo di acqua smossa: una roccia che ostruisce la corrente.
Viene uno sparo dal punto in cui si è fermato il camion, davanti a un cancello che conduce a un campo, di fronte all’imbocco di un sentiero nel bosco. Accanto a noi la gente si abbassa, i cavalli danno uno strattone e tu sussulti, ma io non riesco a staccare lo sguardo dalla figura dietro le fiamme. Altri spari, e finalmente mi volto, per vedere alcune persone che scendono inciampando dal camion con le mani intrecciate sopra la testa, mentre altri uomini in uniforme le spingono via, fanno cadere con un tonfo la ribalta posteriore e si mettono a frugare nel veicolo. Quando mi volto, tu ti sei di nuovo seduta, e la donna in uniforme che ho visto tra le fiamme sta venendo avanti, affiancata da due di quegli irregolari, fino allo sportello della nostra carrozza aperta.
La nostra luogotenente (anche se devo ammettere che ancora non sapevamo che lo fosse) è di corporatura media, ma i suoi movimenti comunicano un’idea di grazia. La sua faccia ordinaria è scura, quasi bruna di colorito, e gli occhi grigi sono ombreggiati da sopracciglia nere. Il suo abbigliamento è composto di molte uniformi diverse: gli stivali logori e macchiati provengono da un esercito, la sua tenuta di fatica da un altro, la giacca lurida e bucata da un altro ancora, e il berretto stazzonato, su cui spiccano un paio d’ali, sembrerebbe dell’aeronautica, ma il fucile (lungo e nero, con i caricatori a forma di mezzaluna disposti con cura uno accanto all’altro) è lucido e pulitissimo. Ti sorride e si tocca appena il berretto con due dita, poi si rivolge a me. Il fucile è comodamente appoggiato al suo fianco, con la canna che minaccia il cielo.
«E lei, signore?» domanda. La sua voce ha una ruvidezza che trovo perversamente piacevole, anche se mi si accappona la pelle per la minaccia sepolta nelle sue parole, una promessa di pericolo. Aveva sospettato, aveva previsto qualcosa già allora? La nostra carrozza ci distingueva dalla folla, come un gioiello montato su un anello da poco, che attirava il predatore nascosto in lei?
«Come, signora?» le chiedo, mentre qualcuno grida. Distolgo lo sguardo e vedo un capannello di soldati radunati attorno a qualcuno steso sul ciglio della strada, a pochi metri di distanza dal furgone in fiamme. La fila dei profughi oltrepassa anche questo gruppo tenendosi il più possibile lontana.
«Ha qualcosa che potrebbe servirci?» chiede la donna in uniforme, ondeggiando con leggerezza sul predellino della carrozza e — dopo averti rivolto un altro sorriso — sporgendosi per sollevare un angolo della coperta da viaggio con la bocca del fucile.
«Non so», dico lentamente. «Cos’è che potrebbe servirvi?»
«Fucili», dice scrollando le spalle. Mi fissa e stringe gli occhi. «Qualcosa di prezioso», dice a te, poi usa la bocca del fucile per sbirciare sotto un’altra coperta dalla parte dove siedi tu, pallida, con gli occhi spalancati fissi su di lei. «Combustibile?» dice, guardandomi di nuovo.
«Combustibile?» ripeto. Mi passa per la testa di chiederle se intende carbone, o legna, ma non do voce a questo pensiero, intimidito dai suoi modi e dal fucile. Un altro grido singhiozzante proviene dalla piccola calca di uomini davanti al furgone.
«Carburante», riprende, «munizioni…» Si alza un nuovo grido dagli uomini stretti davanti a noi (tu sobbalzi di nuovo); la nostra luogotenente dà un’occhiata nella direzione di quel gemito orribile, e una minuscola ruga si forma e le svanisce sulla fronte quasi nello stesso istante in cui dice «… medicinali?» Sul suo viso appare l’ombra di un calcolo.
Scrollo le spalle. «Abbiamo un po’ di materiale di pronto soccorso.» Accenno alle cavalle. «I cavalli mangiano biada. È tutto il combustibile che gli serve.»
«Mmm», fa lei.
«Lucius», dice qualcuno davanti a noi. Il nostro domestico mormora qualcosa in risposta. Due uomini lasciano il piccolo gruppo radunato sulla strada, uno degli irregolari e il fattore del villaggio, che mi indica. La nostra luogotenente scende dalla carrozza e gli va incontro, si ferma davanti a lui volgendoci la schiena, con la testa curva, a parlare con il fattore. A un certo punto lui ci rivolge un’occhiata, poi se ne va. La luogotenente torna, risale di nuovo, sollevando il berretto sui capelli di un colore smorto, pettinati all’indietro. «Signore», dice sorridendomi. «Lei ha un castello? Avrebbe dovuto dirmelo.»
«Avevo», gli rispondo. Non posso fare a meno di gettare un’occhiata nella direzione di casa. «L’abbiamo abbandonato.»
«E un titolo», continua.
«Di poco conto», le assicuro.
«Bene», esclama la luogotenente, abbracciando con lo sguardo i suoi uomini. «Come dovremmo chiamarla?»
«Per nome, andrà benissimo. Mi chiami Abel.» Esito. «E lei, signora?»
Guarda sorridendo i suoi uomini, poi di nuovo me. «Mi può chiamare luogotenente», mi dice. E a te: «Come si chiama?» Resti seduta, con lo sguardo fisso.
«Morgan», rispondo io.
Resta a guardarti per un momento, poi, lentamente, posa di nuovo gli occhi su di me. «Morgan», dice. Un altro grido dal gruppo accalcato sulla strada. La luogotenente corruga la fronte e guarda da quella parte. «Ferita al ventre», dice con calma, mentre due dita tamburellano sulla vernice lucida dello sportello della carrozza. Dà un’occhiata ai due corpi che giacciono accanto al furgone in fiamme. Sospira. «Solo roba da pronto soccorso?» mi chiede. Faccio cenno di sì. Accarezza la ricca imbottitura all’interno dello sportello, poi scende e raggiunge il gruppetto sulla strada. Il capannello si apre e i soldati le fanno strada.
Al centro del gruppo un giovane in uniforme è sdraiato sul fianco, con le mani strette attorno alla pancia. Trema, geme. La nostra luogotenente va da lui. Posa sulla strada il fucile, si accovaccia, accarezza la testa del ragazzo e gli parla sottovoce, tenendogli una mano sulla fronte, mentre l’altra cerca qualcosa sul fianco. La luogotenente fa segno a un paio d’altri di spostarsi — obbediscono subito — poi si curva e bacia il giovane soldato sulla bocca. Sembra un bacio profondo, prolungato, quasi appassionato; un filo di saliva, che brilla ai raggi del sole che filtrano fra gli alberi, li unisce ancora mentre lei alza lentamente la testa. Le sue labbra si sono appena staccate quando la pistola posata accanto alla tempia del ragazzo esplode un colpo. La testa del soldato ha un sobbalzo, come se fosse stata scalciata con forza, il corpo ha uno spasmo e poi si placa, e un po’ di sangue schizza in alto e poi sulla strada. (Sento la tua mano sulla mia spalla, che mi stringe la pelle attraverso gli strati di giacca, maglioni e camicie.) Il giovane soldato si distende e crolla sulla schiena, bocca aperta, occhi chiusi.
La luogotenente si alza di scatto, rimettendosi il fucile sulla spalla. Concede al soldato morto un ultimo sguardo, poi si volta verso uno di quelli che si erano accalcati attorno al ferito. «Mister Taglio, fa’ in modo che sia sepolto come si deve.» Rinfodera la pistola automatica ancora fumante e dà un’altra occhiata ai corpi dei due civili stesi accanto al furgone in fiamme. «Quelli lasciateli ai cani.» Ritorna alla nostra carrozza, estrae un fazzoletto grigio da una tasca e si asciuga la faccia, togliendo qualche gocciolina di sangue del ragazzo. Salta di nuovo sul predellino, e punta i gomiti oltre lo sportello.
«Stavo chiedendo se avete armi», dice.
«Ho… ho un fucile da caccia e una carabina», le rispondo e mi trema la voce. Guardo la strada davanti a noi. «Potremmo averne bisogno per…»
«Dove sono?»
«Qui.» Mi alzo con lentezza e guardo la cassa sotto il sedile. La luogotenente accenna a un suo uomo che prima non avevo notato, dall’altra parte della carrozza. Il soldato si arrampica, apre la cassa, ci fruga dentro e solleva la borsa di tela cerata nella quale avevo stivato i fucili, la controlla e poi salta giù.