Il soldato chiamato Doppel grugnisce. Rolans mi guarda; io gli faccio cenno di sì. I due si allontanano lungo il corridoio, e le loro facce imbiancate spiccano come distintivi nell’oscurità mattutina. Il fumo disseccato che è la polvere della pietra e del gesso si leva attorno a loro, e contamina tutti noi — mentre ci muoviamo e respiriamo all’interno di questa onnipresente superficie — con l’infezione che si spande dal castello assalito, e ci trasforma tutti in quasi-fantasmi, e rende me, con la mia bianca uniforme, maliziosamente archetipico.
La luogotenente si volta verso un uomo che ci zoppica accanto indossando un elmetto d’acciaio e stringendo un fucile. Gli mette un braccio attorno al petto e lo ferma con delicatezza. L’uomo ha un’aria spaventata: il sudore gli ricopre la faccia, tranne che su una lunga cicatrice frastagliata. È il più anziano dei soldati con cui ho parlato ieri. «Vittima», dice con gentilezza la luogotenente (e devo ammettere che almeno lui ha ricevuto un nome appropriato). «Sta’ tranquillo, adesso. Porta i feriti nelle cantine, nella parte orientale del castello, va bene?»
L’uomo inghiotte, annuisce, e zoppica via velocemente.
Lo seguo con lo sguardo. «Non sono sicuro che sia il posto più sicuro», dico alla luogotenente. «Credo che la prima granata sia finita proprio in una cantina.»
«Andiamo a dare un’occhiata, d’accordo?»
«È sicuro?» chiedo mentre la luogotenente fa scattare l’accendino nell’oscurità.
Mi guarda, e il suo viso è illuminato dalla fiammella gialla e tremolante. La bocca si storce appena. «Sì», dice semplicemente. Siamo nelle cantine, acquattati in cima al deposito di carbone, vuoto, e fissiamo un mucchio di detriti caduti dal soffitto e atterrati sopra un cumulo di legna. Quella specie di toga che ho addosso rende scomoda e goffa la mia posizione e devo avere i piedi luridi.
La luogotenente estrae il portasigarette d’argento dal giubbotto, si sceglie una sigaretta e la accende. Credo di essere invitato a un’esibizione di coraggio. Lei aspira languidamente ed emette il fumo.
«Volevo dire», sento la mia voce che parla, «che siamo in un deposito di combustibile.» La mia voce suona così debole. Spero che alla fiamma dell’accendino non si noti il mio imbarazzo.
La luogotenente ha un’aria scettica e dà un’occhiata alla cantina buia. «C’è qualcosa di esplosivo qui dentro?»
«Solo quella, immagino.» Indico il mucchio di detriti in cui crediamo che sia finita la corsa della granata.
«Improbabile», dice lei, dando un altro tiro alla sigaretta. «Tenga questo», mi dice. Mi passa l’accendino. La luce è fioca. È strano, sono così tante le cose di cui si sente la mancanza. Sto cercando di ricordare l’ultima volta che ho visto una torcia elettrica. La luogotenente si piega in avanti, con la sigaretta incastrata in un angolo della bocca, e gratta via con cura un po’ dei detriti, mandando piccole cascate di polvere biancastra sul pavimento del deposito del carbone. Quindi seguono alcuni cocci, poi lei si mette a tirare e spingere, grugnendo, un pezzo più riluttante. C’è uno schiocco allarmante e un po’ di pietra polverosa e di legno spezzato crolla dalle scaffalature del vino, trascinando qualche ceppo.
«Avvicini la luce», mi dice. Eseguo. «Ah», dice, sostenendosi al soffitto mentre si cala in avanti per afferrare e spingere qualcosa. «Eccola qui.» Abbasso gli occhi e vedo il lato gonfio di una lucente custodia di metallo. Lei rimuove con la mano la polvere che copre l’oggetto e la tiene con delicatezza, come una madre con la testa del figlioletto. «Due e dieci», sospira. Un tremito scuote la cantina attorno a noi, e attraverso il buco che dà sulla sala da pranzo giunge il rumore di un’esplosione lontana. La luogotenente torna a sedersi e batte le mani per liberarle dalla polvere, senza badare all’esplosione, si direbbe. «Meglio tentare di estrarla dal pianterreno.»
La luogotenente osserva i due uomini che frugano la tomba momentanea della granata, inginocchiati sul pavimento scheggiato della sala da pranzo; si allungano per liberarla dai frammenti di pietra e di legno. Il flusso del tubo spezzato, sospeso sopra il tavolo, è stato ridotto a uno sgocciolio; l’acqua si è raccolta vicino al muro esterno, formando una pozzanghera allungata e fumante. Di sopra, uno dei domestici sta cercando di riparare il vuoto che si è aperto nel pavimento della mia stanza, coprendo il buco con legna e un vecchio materasso; i suoi sforzi producono altre nubi di polvere. Ogni tanto dal buco cadono pezzi di gesso, e colpiscono il pavimento attorno a noi come piccole bombe polverose.
Un rumore alle nostre spalle è il soldato con i capelli rossi, che avanza con comica circospezione sulla pellicola di polvere che ricopre il pavimento e regge qualcosa di lungo e scuro. Si avvicina alla luogotenente, fa una sorta di mezzo inchino e mormora poche parole, porgendole l’indumento. È una cappa lunga e nera, da sera all’opera, foderata di rosso. Credo che fosse di mio padre. La luogotenente sorride al soldato, fa un passo indietro, lo ringrazia. Guarda me con uno sguardo di divertita tolleranza, poi la indossa, aprendola e facendosela ricadere sulle spalle come un’ombra.
Un’altra bomba di gesso piomba dal soffitto, schiantandosi sul pavimento accanto ai due uomini che stanno ripulendo la granata e facendoli sussultare. Si danno un’occhiata intorno e poi continuano. La luogotenente manda uno sguardo di fuoco all’insù, agitando una mano davanti alla faccia.
«Quanta polvere», dice.
Anch’io alzo gli occhi. «Davvero. D’altronde questo castello ha avuto quattro secoli di tempo per asciugarsi.»
Lei si limita a grugnire, poi batte le mani, sollevando altra polvere, ed esce turbinando in una tempesta di minuscole particelle, sbattendo la cappa, e le sue impronte sul lurido pavimento sembrano quelle di un animale sulla neve.
Sempre avvolto nel mio lenzuolo mi ritrovo sulla merlatura insieme alla luogotenente e ai suoi uomini, sforzandomi di non tremare di freddo. Lei abbassa il binocolo. «Nessun segno», dice. Le sue dita tozze tamburellano sulla pietra e gli occhi si stringono mentre guarda in lontananza.
Il fuoco d’artiglieria si è interrotto e sembra aver lasciato la mattinata stesa ad asciugarsi, con la rugiada che pende dalle creste levigate e dagli aghi degli abeti come un velo pudico di cui la terra si è ricoperta dopo l’assalto violento di quel lontano cannone. Da una decina di minuti non sono piovute altre granate. L’ultima è stata la più vicina — a parte la prima che ha perforato il castello — ed è atterrata sul bosco in collina a un centinaio di metri da qui. Un debole sbuffo di fumo si leva dal punto in cui è caduta, anche se non sembra ci siano altri danni alla foresta. Gli uomini che la luogotenente aveva spedito sul tetto non sono stati capaci di capire da dove venivano le granate. Si mettono a discutere, tentando di mettersi d’accordo almeno sul numero dei colpi sparati. Stabiliscono che sono stati sei, dei quali almeno due inesplosi. Parlano un po’ di chi potrebbe averci sparato, e della loro posizione. La luogotenente manda due uomini di sotto e si appoggia al parapetto, fissando le colline.
«Sa chi ci ha sparato?» le chiedo. I miei piedi sono ormai intirizziti, ma voglio scoprire tutto quello che posso.
Lei fa cenno di sì, senza guardarmi. «Vecchi amici.» Si prende un’altra sigaretta e l’accende. «Una o due settimane fa abbiamo cercato di prendere quel cannone, ma adesso l’hanno portato sulle colline.» Aspira il fumo della sigaretta.
«E a quanto pare siamo finiti sotto il loro tiro», dico sorridendo.
Mi guarda impassibile. «Credo che anche ieri li abbiamo quasi trovati», dice scrollando le spalle. «Pensavo che se ne fossero andati. A quanto pare, le cose non stanno così. Devono sapere dove siamo. Cercano di costringerci ad abbandonare questo posto.»