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Lascio che il silenzio duri altre due boccate di fumo, poi le chiedo: «Cosa farete?»

Un altro tiro. Lascia cadere un po’ di cenere nel fossato ed esamina con attenzione la punta fumante della sigaretta. C’è qualcosa, nel modo in cui lo fa, che mi agghiaccia, come se la nostra luogotenente fosse abituata a controllare che quell’incandescenza abbia la temperatura adatta per bruciare le carni dell’uomo che deve essere interrogato. «Penso», dice con aria contemplativa, «che potrebbe essere necessario andare a prenderci quel cannone.»

«Ah. Capisco.»

«Quel cannone ci serve: o distrutto, o per poterlo usare noi. Dobbiamo prendergli quell’arnese o andarcene di qui.» Si volta verso di me con quel suo sorriso sottile. «E io non voglio andarmene.» Distoglie di nuovo lo sguardo. «Abbiamo una vaga idea di dove potrebbero essere; sto per mandare qualcuno dei miei in ricognizione.» Si appoggia ai gomiti, con gli avambracci distesi di fronte a sé e le mani unite. Esamina l’anello d’oro col rubino che porta al mignolo, poi sposta di nuovo lo sguardo su di me. «Vorrei che più tardi dessimo insieme un’occhiata ad alcune mappe», dice stringendo gli occhi. Non ho nessuna reazione. «Ne ho trovate alcune nella biblioteca», continua. «Ma ci sono strade che nella nostra spedizione di ieri, verso ovest, mi sembravano diverse.»

«Sono mappe piuttosto vecchie», le confermo. «Se si tratta della proprietà degli Anders, hanno modificato la maggior parte dei sentieri nella foresta, nel corso degli anni. Hanno costruito nuovi ponti, hanno sbarrato con una diga uno dei fiumi. Svariate cose.»

«Lei conosce bene quelle zone, Abel?» mi chiede, cercando di avere un’aria noncurante, quando invece si sta grattando la testa.

«Abbastanza per farvi da guida, vuole dire?»

«Mmm.» Dà un ultimo tiro alla sigaretta e poi la getta nel fossato. Ci sono ancora dei fringuelli che galleggiano presso l’argine. Non so se li abbia notati.

«Credo di sì», dico.

«Lo farà? Ci farà da guida?»

«Perché no?» dico scrollando le spalle.

«Sarà pericoloso.»

«Tanto come restare qui.»

«Sì, giusta considerazione.» Fa scorrere lo sguardo su di me, dall’alto verso il basso. «È meglio che vada a vestirsi. Troviamoci nella biblioteca fra dieci minuti.»

Dieci minuti, per la toilette e per vestirsi? La mia espressione, immagino, mi tradisce.

«D’accordo», dice lei con un sospiro. «Venti minuti.»

Ci metto qualcosa di più, anche se mi pare di non essermi mai vestito così velocemente, a parte le volte in cui c’era qualche incentivo particolarmente efficace, come i rumori che rivelavano il ritorno inaspettato di un marito geloso.

È colpa tua, al principio, mia cara. Quando torno alle nostre stanze sei in camera tua, boccheggiante, a frugare nei cassetti in cerca di un inalatore. Tossisci e hai il respiro affannoso, mentre ti dibatti per ogni singola boccata d’aria. È un vecchio problema: l’asma ti tormenta fin dall’infanzia. La polvere o lo spavento, entrambi potrebbero essere la causa di questo attacco. Faccio del mio meglio per confortarti, ma poi c’è un altro strepito, e qualcuno bussa freneticamente alla porta.

«Signore, oh, signore!» Lucius, un altro dei domestici, si precipita dentro non appena gli do il permesso. «Signore, signore: Arthur!»

Seguo i tacchi di Lucius su per la scala a chiocciola fino alla soffitta. Avrei dovuto pensarci: la stanza del vecchio Arthur è sopra la nostra, sulla traiettoria della granata. Ho un po’ di tempo per immaginare ciò che potremmo trovare.

È una piccola stanza, a filo della grondaia; una tappezzeria chiara, per metà nascosta dalla polvere che si è posata. Mobili da poco prezzo. Non credo di esserci mai entrato prima: è sempre stata la camera del nostro vecchio domestico. Doveva essere piuttosto tetra. C’è un lucernario, ma gran parte dell’illuminazione proviene dal buco frastagliato nel soffitto inclinato, non lontano dalla porta, dove è passata la granata; ho davanti ai piedi lo squarcio che si apre sulla mia stanza.

Arthur è sdraiato su un fianco nel letto all’estremità opposta della stanza, a prima vista incolume. È voltato verso di noi, appena sollevato da un braccio e dal cuscino, eppure allo stesso tempo sembra accasciato. Indossa un pigiama. In un barattolo sul comodino c’è la dentiera, accanto a un libro su cui sono posati gli occhiali. La faccia è grigia, ed esprime una seccata concentrazione, come se stesse guardando il pavimento nel tentativo di ricordare dove ha messo il libro, o cosa ne ha fatto degli occhiali. Lucius e io siamo fermi sull’entrata. Alla fine vado avanti io, oltrepassando il buco e camminando sul tappeto.

Il polso del vecchio Arthur è freddo e non batte più. Sulla pelle ha uno strato di qualcosa che sembra talco. Gli soffio sul viso, sollevando una patina di polvere bianca. Sotto, la pelle è sempre grigia. Rivolgo a Lucius un’occhiata di scusa e faccio scivolare una mano sotto le coperte, con una smorfia. Anche il ventre è freddo.

Attorno al collo ha una catenina d’oro. Invece di un emblema religioso o di un portafortuna, porta solo una piccola chiave. Gli faccio scorrere la catena sopra la testa e la prendo nel palmo della mano. La infilo in una tasca della giacca.

Gli occhi di Arthur sono ancora parzialmente aperti; gli metto le dita sulle palpebre e glieli chiudo, e poi faccio forza su una spalla per farlo cadere sulla schiena, in una posa ritenuta di solito più appropriata per una persona appena defunta.

Mi alzo e scuoto la testa. «Un attacco di cuore, immagino», dico a Lucius, guardando lo squarcio nel soffitto. «Oserei dire che deve essere stato un brusco risveglio.» Mi sembra che il gesto sia in un certo senso richiesto, perciò tiro il lenzuolo fino a coprire la faccia grigia di Arthur. «Dormi», mi sento mormorare.

Lucius fa uno strano rumore, e quando mi volto sta singhiozzando.

Ritorno da te, mia cara, sulla strada dell’appuntamento con la luogotenente, quasi aspettandomi di trovarti stesa sul pavimento, ansante, con la faccia blu, con le mani strette alla gola, ma — allo stesso modo, eppure diverso, del nostro rapido ospite e del nostro vecchio domestico — adesso ti sei addormentata.

OTTO

Quando scendo a incontrare la luogotenente, i soldati sono nell’atrio a osservare la granata, ormai dissotterrata, che viene portata fuori su una barella. I suoi cerei portatori maneggiano quell’essere solido e inanimato con una parvenza di rispetto ancora più devoto di quello che riservano al loro comandante, come se stessero trasportando qualcuno che non intendono svegliare. Così, piccola e tenera come un neonato, la granata se ne va lentamente, per essere scaricata da qualche parte nel bosco. Faccio mente locale e mi riprometto di chiedere quale sarà il punto preciso, nella remotissima possibilità che possiamo sopravvivere per vedere di nuovo la pace, e poi proseguo per la mia strada, verso la biblioteca e la luogotenente.

Entro nell’oscurità dietro i muri spessi della biblioteca attraverso la porta già aperta, e penetro nel silenzio con il dovuto rispetto. La luogotenente è seduta su un’antica poltrona, con la testa posata sulle braccia, piegate sul tavolo davanti a lei. Ha tolto la cappa da sera, e l’ha deposta, come un lembo ripiegato della notte, sullo schienale dietro di sé. Una mappa delle nostre terre è spiegazzata sotto la sua testa, e i capelli ricci e sudici si librano come una nuvola nera sopra tutti noi. Ha gli occhi chiusi e la bocca appena aperta; ha lo stesso aspetto di qualunque donna addormentata, anzi è meno significativa di molte altre. L’anello al mignolo luccica debolmente.

Quanti devoti di Morfeo ci sono stamattina nel castello. Per un breve istante ho una sensazione di potere nei confronti della luogotenente addormentata, e penso che potrei allungare una mano fra il mantello e la camicia e liberare la pistola dalla fondina, e con essa minacciarla, ucciderla, prenderla in ostaggio così da costringere i suoi uomini a lasciare il castello, o forse, per l’audacia del mio gesto, convincerli che sono un comandante più degno d’essere seguito.