E, soprattutto, la prima volta che ti ho condivisa, verso l’alba di un ricevimento, molti anni fa, poco prima che le nostre feste diventassero famigerate, quando, dopo averti a lungo incoraggiata, con accenni, lusinghe e l’esempio implicito, mi fu concesso di trovarti qui, senza freni, su questo letto trasformato in un gonfio paesaggio di puro biancore, immobilizzata e immobilizzante e sobbalzante allo sprone del piacere, salendo e cadendo come un vascello abbandonato sul mare gonfio e tempestoso.
Era un cugino, uno dei miei migliori amici, con cui ero andato a cavallo, avevo cacciato e tirato di scherma e passato molte altre notti ebbre e dissipate. In quel momento lo scoprii sotto di te, legato con corde di satin, che godeva di te mentre lo cavalcavi, eretta e arcuata, con le mani strette attorno alle sue caviglie, e poi — dopo che il ragazzo si era ripreso dalla sorpresa iniziale al vedermi, e aveva colto la mia idea, che anzi l’aveva evidentemente rinvigorito — per me ti curvasti in avanti, allungandoti verso di lui e baciandolo mentre anch’io mi univo a voi, salendo vicino a lui, parallelamente ai suoi colpi generosi ma — con tenerezza, con pazienza, sforzandomi di non causare dolore — dedicandomi a un approccio più basilare. Mentre tu a una mia parola ti fermasti, come una cavalla obbediente, sentendo lui che si muoveva sotto e dentro, fu lui con grandi sforzi a rendersi conto che stava liberando in me ciò che cercava in te e in se stesso.
È stato, forse, il mio miglior momento. A giudicare secondo i crudi criteri contabili che si possono applicare a simili materie, in molte occasioni seguenti ci saremmo senza dubbio superati, ma c’era una freschezza, un’insostituibile e irripetibile novità in quella prima volta che la rese altrettanto preziosa — no, più preziosa — della semplice perdita della verginità. Per ciascuno di noi quel primo atto è di solito un’occasione di nervosismo, di affannosa goffaggine e di squisiti zenit di imbarazzo che solo la giovinezza può fornire davvero; non può mai assurgere all’appagamento fisico e alla raffinatezza intellettuale del gusto — la capacità di apprezzare pienamente ciò che si sta compiendo — che solo l’esperienza può portare con sé e che, col passare del tempo, uno riesce a cogliere nelle successive variazioni dell’atto, senza considerare in quali precise particolarità esso non abbia precedenti.
A quanto pare sono riuscito a decidermi. Tutto è silenzioso per un istante. Allungo una mano verso la tua caviglia, e la afferro attraverso le coperte mentre tu alzi gli occhi, sbigottita, e qualcuno bussa bruscamente a una porta. Il suono proviene dalla mia camera. Volgiamo entrambi lo sguardo.
«Sì?» dico, a voce abbastanza alta.
«Stiamo andando», grida una voce militaresca. «La luogotenente dice che deve venire anche lei.»
«Un minuto!» grido. Strappo via lenzuola e coperte dal tuo letto.
Hai un’aria imbronciata, mentre sollevi i fianchi per tirare in su la camicia da notte. «Stiamo tentando di battere un record?»
«Ci sono cose che non ci aspetteranno», dico, sbottonandomi appena mentre mi sollevo verso di te.
«Be’, non farmi male…» dici con aria petulante.
Più che dolore, una tale forzatura richiede tempo, nonostante la determinazione che uno possa metterci. Seppellisco la faccia fra le tue gambe, e sprofondo nel profumo di te, terrestre e insieme salmastro. Lascio cadere un po’ di saliva, poi mi sollevo e mi immergo in te.
Un altro grido.
DIECI
Un vestibolo ribassato: nell’atrio d’ingresso del castello, la cappa della luogotenente è stata gettata da parte come una pelle di velluto, attorno alle spalle di un’armatura vuota che sta immobile sotto un rosone di spade appese al muro. I motori freddi delle jeep sferragliano in cortile. La luogotenente sta parlando con il soldato dai capelli grigi, quello ferito alle gambe e con la cicatrice sulla faccia; lui si appoggia alla stampella di fortuna e ascolta coscienziosamente gli ordini. Vicino ci sono due nostri domestici che osservano la luogotenente e poi si volgono verso di me.
La luogotenente mi squadra dalla testa ai piedi. «Cambiato di nuovo, Abel?»
«In meglio, spero», le dico toccandomi i pantaloni per assicurarmi di averli riabbottonati. Non credo che lei noti il mio gesto.
Anche la luogotenente è vestita in modo diverso: ostenta sempre gli stivaloni, ma adesso indossa calzoni di tweed e un gilè sulla camicia verde. Il giubbotto mimetico e un elmetto d’acciaio fanno fatica a dare il necessario tocco marziale a quella tenuta da campagna. Sopra l’elmetto c’è un tessuto verde, tenuto fermo da una reticella nera tesa e aderente e — in questo momento di detumescenza in cui il cuore mi rimbomba nel petto — evocativa.
Il soldato con la cicatrice mormora qualcosa alla luogotenente. Lei aggrotta le sopracciglia, dà un’occhiata ai domestici e si piega verso di me, mi mette una mano sul braccio e dice sottovoce: «Seppelliranno il vecchio Arthur nel bosco dietro il castello; il posto migliore è forse un cratere di granata. Se non altro è profondo».
Faccio cenno di sì, leggermente sorpreso. «E appropriato», concordo. Così Arthur andrà a raggiungere papà. La mamma aveva sparso proprio lì le sue ceneri: l’aveva restituito alla terra di casa al suo ritorno, in una cassa, dopo essere stato assassinato in una città straniera.
«Probabilmente incideranno qualcosa su un pezzo di legno», dice la luogotenente. «Come si chiamava di cognome?»
La guardo imbarazzato. «Di cognome?» ripeto, per prendere tempo.
Mi fissa stringendo gli occhi, sospettando, ne sono convinto, che non lo sappia. Ha ragione, naturalmente, ma non posso perdere il piccolo vantaggio che ho su di lei.
«Sì», dice, «Il cognome di Arthur: come si chiamava?»
«Ignatius», le rispondo, aggrappandomi al primo nome che mi viene in mente (e adesso che ci penso, era il nome del cugino che avevo scoperto con te in quella notte di occupazioni condivise).
La luogotenente corruga la fronte, ma poi trasmette con calma questa falsa informazione al soldato sfregiato, che annuisce e si allontana zoppicando. Lei mi rivolge un sorriso sottile e solleva il fucile che aveva posato vicino al muro. Non me n’ero accorto. Il contenitore che aveva ospitato il fucile della luogotenente era un vecchio bossolo di granata che la nostra famiglia aveva sempre usato per riporre ombrelli, bastoni da passeggio e così via. Lei coglie il mio sguardo mentre controlla il fucile e se lo mette in spalla. Con uno stivale dà un colpetto al cilindro d’ottone. «Un calibro più piccolo», mi dice, poi accenna alla porta e al cortile.