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«No, no, dopo di lei», rispondo, battendo i tacchi.

La sua bocca fa di nuovo quella piccola torsione, e dopo un cenno ai due soldati feriti nell’atrio esce alla luce del sole, batte le mani, raduna i suoi uomini e, con una fretta improvvisa, si mette a gridare: «Su, avanti! Andiamo!»

Prendo posto sulla seconda jeep, con lei. La luogotenente si siede dietro l’autista, io sull’altro sedile posteriore, e fra noi c’è il treppiede della mitragliatrice, affidata al soldato coi capelli rossi, Karma, che per il momento sta seduto, con una natica puntata su ciascuno degli schienali dei sedili e i piedi schiacciati fra le nostre cosce.

La prima jeep abbaia e scatta in avanti, evitando di poco il pozzo e sbandando attraverso il cancello e il ponte sopra il fossato. Noi la seguiamo, oltrepassiamo il pozzo, avanziamo sui ciottoli umidi con una minima perdita di aderenza, e poi ci tuffiamo verso la stretta apertura del cancello. Il motore aumenta i giri mentre passiamo nel breve tunnel sotto l’antico corpo di guardia, fra le torri. Al di là, il sole mi acceca, inondandomi gli occhi di una ricca luce dorata. In alto, il cielo è blu cobalto.

La nostra luogotenente si mette una mano in una tasca e infila gli occhiali da sole. Il soldato al volante fa lo stesso. È senza elmetto ma porta una bandana verde oliva legata attorno ai capelli biondi; nonostante la temperatura e la scarsa protezione dagli elementi fornita dal parabrezza della vettura aperta, ha le braccia nude e indossa solo una maglietta strappata, uno scaldino, qualcosa che sembra un giubbotto antiproiettile e, sopra, un gilè con le tasche rigonfie e ornato di nastri di proiettili da mitragliatrice.

La jeep ci fa piegare di nuovo all’indietro mentre il ponte di pietra ci trasporta oltre il fossato e il primo fuoristrada accelera lungo il viale d’accesso. Superiamo i camion, in attesa sulla ghiaia. Ciascun motore tossisce, dà gas e ci viene dietro obbediente, mentre i tubi di scappamento annebbiano il cielo con neri schizzi di fumo. Mi chiedo se abbiano già riempito i serbatoi con il carburante di cui gli ho parlato.

La luogotenente mi mette in mano un fascicolo di carte infilato in una cartelletta di plastica. Dentro l’involucro trasparente vedo una parte della mappa che abbiamo consultato insieme, nella biblioteca. Lei si tira fuori una sigaretta e la accende, fissando la strada davanti a sé. Le ruote rombano sulla ghiaia. Mi guardo attorno mentre, osservati dagli sguardi cupi di alcune facce tese e ansiose, oltrepassiamo l’accampamento degli sfollati.

Dietro di noi i due camion avanzano ondeggiando fra i tiranti dell’accampamento; i loro teloni mimetici sembrano tende svolazzanti che per qualche motivo si sono messe in movimento fra le altre. Al di là, il castello. Si ergono i suoi blocchi di granito, luccicano le finestre, le torri e le merlature dividono il cielo blu, e la mole dorata, come il mantello di un leone contro il fondale dei boschi e il cielo di zaffiro, resiste, fiera e sempre vittoriosa, nonostante tutto.

Parto solo per ritornare, dico a me stesso. Lo abbandono solo per difenderlo meglio. I castelli hanno bisogno della loro dose di fortuna, oltre che di essere ben disegnati; stamattina abbiamo già avuto la nostra razione di buona sorte, e anche di più, quando la granata piovuta dal cielo non è riuscita a germinare e a produrre il suo fiore esplosivo, e spero che i miei stratagemmi — assorbire, cooperare, osservare, attendere — possano fornire una più ragionevole protezione di una sfida arcigna e ammonitrice che invita solo all’assalto e alla distruzione.

Assorbire come la terra, cooperare come il contadino, osservare e aspettare come il cacciatore. Le mie strategie devono rimanere nascoste sotto l’apparenza delle cose, come la geologia che si può solo sospettare sotto la superficie del mondo. È lì, nella rotazione palatale delle rocce sotterranee, che si decide il vero corso delle storie e dei continenti. Sepolte entro un limite indefinito, sollecitato da una continua tensione sotterranea, giacciono le potenze represse che plasmano il mondo futuro; una presa cieca e brutale di pressione e calore fluido, che tiene e trattiene la sua pietrosa riserva di forza.

E il castello, prodotto dalla roccia, modellato con quella durezza dalla carne e dal cervello e dalle ossa e dalle maree di tutti gli interessi umani in conflitto, è un poema inciso in quella forza; un valoroso e aggraziato canto di pietra.

Credo di vederti, mia cara, a una finestra, mentre saluti. Mi chiedo se ricambiare quel saluto, poi mi accorgo che la luogotenente, al mio fianco, si è voltata anche lei a guardarti. Si sistema la rete che le avvolge l’elmetto, soffia una nube di fumo che viene spazzata via dalla nostra avanzata e si volta di nuovo.

Quando torno a guardare non ci sei più, e al tuo posto c’è un abbagliante riflesso di luce, incastonato fra quelle pietre color miele come un gioiello liquido e splendente. Al di sopra, i tre saccheggiatori impiccati ondeggiano nella brezza, dimenticati; e ancora più in alto, con una grazia pesante e spontanea, senza potersi opporre alla salda presa del vento, il nostro vecchio memento, il nostro nuovo emblema, la bandiera, ci invia il suo saluto.

Un istante dopo, con una curva, ci infiliamo tra gli alberi, e il castello ci viene negato dal suo stesso parco.

UNDICI

La terra è tiepida sotto l’alta mano del sole, la luce cade bocconi e aggiunge nuove tonalità alla tavolozza delle stagioni; questa strada, dorata per un recente acquazzone, fuma come un lucente sentiero diretto verso il cielo. Ci muoviamo velocemente, senza incontrare nessuno, attraverso una nebbia da palcoscenico che si innalza tortuosamente, colpita dal sole. Ci trasciniamo dietro, lungo viali alberati, il fumo dei tubi di scappamento, fili spezzati di un burattino. Le strade fumanti sono tranquille, se non vuote; passiamo accanto a carri e roulotte finiti nei fossi, camion rovesciati su un fianco o precipitati nei canali di scolo, con le ruote puntate verso l’aria e il naso infisso nel fondo umido. Altri camion, autobus, furgoni, pickup e automobili trasformano in gincane i lunghi rettilinei della strada. Le loro carcasse sono bruciate o capovolte, o semplicemente sono state abbandonate. Tutto parla delle folle che hanno percorso questa strada, lasciandosi alle spalle questi carapaci di metallo come fanno i granchi dal corpo molle sul fondo del mare, dopo aver mutato la loro precedente anatomia. Ci muoviamo a zigzag in questa desolazione senza vita come un ago che percorre un lacero arazzo di rovine.

In più, la strada è ostruita da mucchi e file di beni abbandonati, e si vede la miseria dell’immaginazione dei profughi, se non della loro stessa vita, considerando quello che dapprima avevano pensato di portarsi dietro, e poi sono stati costretti a lasciare: elettrodomestici, poveri oggetti per ornare la casa, vasi di piante, intere collezioni di dischi, sgargianti mucchi di riviste ormai fradicie di pioggia; come se, travolti da un panico improvviso, avessero afferrato la prima cosa capitata sottomano, non appena si erano resi conto che starsene a casa loro non era più un’idea così consigliabile.

Non ci sono cadaveri, a quanto vedo, ma qua e là ci sono mucchi di vestiti, sparsi dal vento o da qualche animale attraverso i campi e sulla sede stradale, disposti talvolta dal caso in una vaga somiglianza con una forma umana, che attira così l’attenzione di un occhio sbigottito. Continuiamo la nostra corsa senza tentare di evitare questi detriti, travolgendoli e gettando qua e là pentole e padelle, paralumi, scatole, custodie di plastica. Rimbalziamo su mucchi di vestiti stracciati, e li spargiamo a destra e a manca.