Il nostro autista corre veloce e sterza all’improvviso, a quanto pare per colpire qualche oggetto mancato o fatto rimbalzare all’indietro dalla jeep che ci precede; urla e ride quando distrugge un altro oggetto domestico smarrito o una padella che ruota su se stessa, colpita dall’altra jeep. La sua pelle nuda è chiazzata dal freddo, ma lui sembra non accorgersene. La sua bandana verde oliva si increspa nel vento, gli occhiali da sole scintillano. La luogotenente è seduta con una gamba appoggiata alla maniglia interna della porta, il calcio del lungo fucile è posato sul suo grembo accanto alla radio, e la canna è ritta nel vento come una frusta. Il soldato davanti a me sta seduto allo stesso modo, e continua a controllare il suo fucile, togliendo il caricatore e infilandolo di nuovo, dentro e fuori, dentro e fuori.
Ogni tanto si piega in avanti e, con uno straccio estratto da una giberna che porta alla cintura, olia qualche altro millimetro quadrato della lucida superficie dell’arma. Porta alti stivali con legacci, una voluminosa tenuta da fatica e un giubbotto trapuntato che, credo, una volta doveva essere bianco ma che poi è stato chiazzato di colori che rappresentano tutte le tonalità del fango, dal marrone al nero, al rosso, giallo e verde. Ha in testa un elmetto metallico simile a quello della luogotenente ma con le parole MORTO DENTRO scarabocchiate sulla tela verde, con qualcosa che sembra rossetto scarlatto.
Dietro e sopra di me, Karma indossa un paio di calzoni alla zuava rubati a qualche contadino, sormontati da una pelliccia che proviene da un nostro armadio e copre il suo giubbotto da combattimento; le mani strette alla staffa della mitragliatrice sono avvolte in guanti da sci, a uno dei quali è stata rimossa la punta dell’indice, per permettere un migliore accesso al grilletto. Sulla tela che ricopre l’elmetto ha cucito le decorazioni concesse a qualche mio antenato.
Il soldato davanti a me estrae ancora una volta il caricatore. Ispeziona le pallottole scintillanti annidate al suo interno, lo rigira e ripete l’operazione, poi lo fa scattare di nuovo al suo posto. Sento l’odore dell’olio del fucile. Il soldato si mette a cantare; qualcosa di vagamente riconoscibile, che doveva essere popolare qualche anno fa. La luogotenente fruga in una borsa a tracolla posata ai suoi piedi — qualcosa che ha sulla mano attira il mio sguardo e penso alla borsa dei gioielli che tenevi vicino ai piedi sulla carrozza — poi torna ad appoggiarsi allo schienale e aggancia due bombe a mano sul davanti del giubbotto. La superficie sfaccettata delle bombe fa venire in mente grosse barrette di cioccolato fondente. La luogotenente si accende un’altra sigaretta.
Ho partecipato a battute di caccia non molto diverse da questa spedizione. Fuoristrada con trazione integrale e aria condizionata al posto di jeep con la mitragliatrice, rimorchi per il trasporto di cavalli invece di camion, doppiette, non armi automatiche. Eppure la sensazione è la stessa, e anche gli attori non sono molto diversi. La luogotenente possiede un suo stile, mentre sfreccia nella jeep con gli occhiali da sole, una sigaretta stretta fra le labbra, lo sguardo fisso avanti. Anche ai suoi uomini non manca un’aria militar-chic. Abitano articoli spaiati di un vestiario militare talvolta incongruo — un berretto da generale, spalline d’oro ma luride cucite su un giubbotto da combattimento, un’esibizione di nere bombe a mano appese su un gilè come distintivi. Altri ostentano abiti e articoli civili — un panciotto sgargiante indossato sotto una mimetica, un altro berretto dall’ambiguo statuto militare che forse apparteneva a un velista, l’anello per l’apertura di una lattina portato come orecchino: e molte di queste cose serviranno da portafortuna, immagino, oltre che come espressione di individualità.
E in un certo senso loro ci surclassano. Le nostre cacce erano frivole: semplici giochi per gente che aveva tempo, terre e risorse da sprecare in tali divertimenti. Lo scopo della luogotenente è più serio, la sua missione ha un’importanza molto maggiore delle nostre: adesso in palio c’è molto di più della vita o della morte di qualche sensibile animale. Tutti i nostri destini, e quello del castello, sono posati sul piatto oscillante della bilancia, in attesa di un giudizio emesso non da una magistratura, per quanto parziale nelle sue vedute, ma dalla nuda forza delle armi.
Questi tempi livellatori restano ingiusti, e rendono comune, degradandolo, ciò che dovrebbe essere libero da ogni volgare minaccia, in una campagna così incivilita e coltivata. Questa tensione malata e ansiosa, queste devastazioni che ci circondano mi sembrerebbero naturali in luoghi più aspri, dove meno si è edificato e meno c’è da distruggere. Ma in questo risiede forse il nostro errore originario; tutti coloro che hanno dato inizio a questo tumulto non riuscivano a credere che ci saremmo ridotti alla barbarie che abbiamo abbracciato.
Mi chiedo quale sia la storia della luogotenente e dei suoi uomini. Sembrano, almeno in parte, provenire da un vero esercito, anche se sono ovviamente irregolari e agiscono solo per se stessi, senza far parte di una forza più ampia e senza nessuna particolare devozione a una causa superiore. Eppure, mi viene in mente, i loro veicoli sono (o erano) dell’esercito. Molte delle bande armate che percorrono la nazione — poco meno, o poco più, di banditi — prediligono (o non hanno altra scelta che requisire) fuoristrada o pick-up civili. Al contrario, la luogotenente e i suoi uomini hanno vere jeep e camion militari, e le loro armi sembrano provenire tutte da una stessa fornitura: parecchie mitragliatrici pesanti, fucili automatici, granate da fucile, pistole automatiche simili. Avevo creduto che volessero prendersi anche i miei fucili da caccia ma, dato il loro arsenale, armi del genere non possono davvero essere la loro prima scelta. Sembrano anche, pensandoci adesso, molto disciplinati. Forse una volta erano un’unità dell’esercito regolare?
Decido di chiederglielo. Guardo la luogotenente, seduta con lo sguardo fisso sulla strada, gli occhi nascosti dietro gli occhiali neri. Volta appena la testa quando attraversiamo un incrocio, per leggere un cartello stradale piegato, e riprende la posizione di prima. Medito sul modo migliore di attaccare discorso. Lei estrae il portasigarette d’argento, lo apre e se ne sceglie una. Mi piego verso di lei, oltre il ginocchio di Karma. «Posso?» le chiedo, indicando il portasigarette che sta per riporre.
La maschera creata dagli occhiali da sole mi guarda: vedo il mio riflesso distorto. Le sue labbra si tendono. Mi allunga il portasigarette. «Certo. Si serva pure.»
Prendo una sigaretta; ci curviamo l’uno verso l’altra e lei accende prima la mia sigaretta e poi la sua. Il gusto è acre; il tabacco si deve essere seccato almeno per un anno, per essere diventato così amaro. Mi ero chiesto dove la luogotenente trovava il tabacco: davo per scontato che ci fosse un contatto, per quanto tortuoso e insicuro, e prerogativa di contrabbandieri e disperati, con qualche luogo dove potrebbero ancora prevalere la pace e una sembianza di prosperità, ma questi tubetti secchi sono stati di sicuro rubati in qualche negozio devastato o requisiti agli sfollati in fuga; nessuna traccia di una fornitura fresca.
«Non sapevo che fumasse, Abel», dice la luogotenente al di sopra del rumore della jeep.
«Un sigaro ogni tanto», le dico, cercando di non tossire.
«Mmm», fa lei, dando un tiro alla sigaretta. «Nervoso?» mi chiede.
«Un po’.» Sorrido. «Immagino che voi invece siate ormai abituati a queste cose.»
La luogotenente scuote la testa. «No. Alcuni diventano totalmente insensibili.»
Scuote la cenere nel vento e poi torna a guardare avanti. «Ma di solito muoiono appena dopo. Per la maggior parte delle persone la prima volta è la peggiore, poi va meglio per un po’, se nel frattempo si ha tempo di recuperare, ma dopo, di solito subito dopo, è sempre peggio.» Si volta verso di me. «Si diventa più bravi a nasconderlo, tutto qui.» Scrolla le spalle. «Finché non si crolla del tutto.» Un altro tiro alla sigaretta acida. «Ci sono due scuole di pensiero: alcuni dicono che ogni tanto è meglio abbandonarsi alla pazzia, per cercare di eliminarla dall’organismo, a rischio però di perdere completamente la testa; secondo altri invece bisogna reprimere tutto, nella speranza che veniamo travolti dagli eventi e scoppi all’improvviso la pace, così che possiamo avere il nostro bello stress post-traumatico in tutta comodità.»